DON ANTONIO

mercoledì 31 agosto 2011

LE VERITÀ TRASCURATE DELLA SPERANZA CRISTIANA

Vista la diffusa ignoranza sulla divina Rivelazione e il dilagare del malefico relativismo, fattori
che alimentano il clima di rassegnazione e di sconforto verso il futuro, oggi la vera urgenza è di
educare alla speranza. Nonostante ogni domenica i cristiani nella S. Messa riaffermino: “…
proclamiamo la Tua resurrezione nell’attesa della Tua venuta”, sembra che molti vivano la
quotidianità senza questa sconvolgente e gioiosa verità. Pertanto, è necessario ritornare ad
annunciare le verità dimenticate della speranza teologale e testimoniare, con il proprio stile di vita,
“la potenza della risurrezione di Cristo” che “ci ha rigenerati a una speranza vivente”.
“Benedetto sia il Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha
rigenerati a una speranza vivente mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una eredità
incorruttibile, incontaminata e inalterabile. Essa è conservata nei cieli per voi che dalla potenza di Dio
siete custoditi, mediante la fede, per la salvezza che sta per essere rivelata negli ultimi tempi.[…] Chi vi
potrà fare del male, se siete zelanti nel bene? Ma se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non
vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma glorificate la santità del Signore, Cristo, nei vostri cuori,
pronti sempre a render conto a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Ma fatelo
con mitezza e rispetto, mantenendo una buona coscienza, affinché, nel momento stesso in cui si parla
male di voi, rimangano svergognati quelli che calunniano la vostra buona condotta in Cristo.
(1Pt 1,3-6; 3,13-16)
Siamo rigenerati a una speranza vivente mediante
“LA POTENZA DELLA RISURREZIONE DI LUI”.
Oggi c'è un’inflazione nell'uso di molti termini dei quali non si conosce appieno il significato, tra questi
c’è la parola “speranza”, la quale è di sicuro, tra le tre virtù teologali, la più misconosciuta.
I credenti sono chiamati a riacquistarne il vero significato. Sembra, infatti, che i cristiani, non tenendola
nella debita considerazione, abbiano perso il coraggio di annunciarla e testimoniarla con la loro vita. Per
molto tempo forse ci siamo impegnati a dar ragione della nostra dottrina, dimenticandoci l’importanza
delle “ragioni del cuore” (per un maggior approfondimento v’invito a visitare il sito:
www.famigliagemagi.com). Allo stesso modo, impegnati nel difendere i nostri principi morali, ci siamo
distolti dal considerare necessaria, per la vita di un cristiano, la virtù della speranza, la quale, di fatto, è
sempre più trascurata, anche nelle stesse omelie. La mia esperienza a scuola con gli alunni e in
parrocchia con i genitori, riguardo alla diffusa rassegnazione, alla tristezza, alla disperazione e alla paura
d’imminenti fenomeni catastrofici, suffraga il letargo quasi mortale in cui viviamo.
La speranza cristiana è così poco comprensibile, per noi del XXI secolo, perché siamo figli di una
mentalità pragmatica, che segue i valori di una società fondata sull’edonismo, sul desiderio di possesso,
sull’egoismo, sulla competizione e sulla fretta. Tutto deve essere realizzato subito, perché siamo sempre
più incapaci di discernere i momenti propizi, le città, di fatto, sono diventate fabbriche di edonisti tristi e
disperati (vedi a tal proposito la mia meditazione sul sito web).
Forse è opportuno non dare niente per scontato e chiarirci le idee su
CHE COS’È LA "SPERANZA”.
La speranza è la seconda delle tre virtù teologali, dette così perché sono donate da Dio all’uomo, per
realizzare il suo progetto, quello di farlo partecipe della sua stessa natura divina. Tra le tre virtù c’è
un’osmosi: la speranza scaturisce dalla fede, la quale è sostenuta dalla speranza (“Abramo…ebbe fede
sperando contro ogni speranza” Rm 4,18), e si alimenta della carità che spera (“La speranza poi non
delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato
dato” Rm 5,5; “la carità… tutto spera” 1Cor 13,7). Poiché, la speranza è strettamente legata alla fede,
essa è il bastone che ci sostiene nel cammino verso Dio, come pure è lo strumento che, nutrendosi della
carità, ci permette di lavorare con forza e con gioia per il Suo Regno.
La speranza indica qualcosa da venire, l’attesa di un evento che, nella fede, è certo che accadrà, ma
dal punto di vista umano potrebbe anche non accadere.
LE VERITÀ TRASCURATE DELLA SPERANZA CRISTIANA
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Probabilmente, la speranza è la più laica delle virtù teologali per il semplice motivo che anche il solo
sperare in un bene mondano, come avere dei progetti, il lottare per un credo politico…, è sempre fonte di
energia, di carica vitale nei momenti bui della vita.
La speranza, quindi, è una sorgente di forza per vivere in modo diverso; essa pone l’uomo nella
condizione di vivere per qualcosa che migliori la sua condizione materiale e morale. La sua vita non ha
senso se non s’impegna in qualche campo (filosofico, morale, scientifico, ecc.). Victor Frankl, uno
psicoterapeuta austriaco, deportato nel campo di sterminio di Auschwitz, aveva notato che non tutti i suoi
compagni di prigionia sopportavano le sofferenze allo stesso modo. Coloro che credevano o speravano in
qualcosa, vivevano più a lungo rispetto a chi viveva senza nessuna speranza.
È opportuno chiarire che la speranza cristiana non va confusa con una ragionevole previsione di
buon esito dei progetti umani. La nostra speranza non è una semplice proiezione di quello che vorremmo
essere o fare, non è il sogno di un mondo migliore realizzabile solo nella vita terrena. Pur non essendo
avulsa dalla realtà di questo mondo, la speranza cristiana va oltre, guarda alle cose di lassù, al Cielo, alla
dimensione ultraterrena. Essa ci porta a vedere i semi del Regno di Dio, di un mondo nuovo già presente
in mezzo a noi, grazie all’intervento di Dio che si è manifestato nella vita, morte e risurrezione di Gesù.
Infatti, noi affermiamo che il centro della nostra fede è Cristo risorto, nostra speranza!
San Paolo ci spiega il motivo per cui il cristiano spera e qual è il segreto della nostra speranza, quando,
focalizzando la centralità del grandioso Evento pasquale di Cristo come il fondamento della nostra
speranza, afferma: “Non vogliamo lasciarvi nell’ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti, perché non
continuiate ad affiggervi come gli altri che non hanno speranza. Noi crediamo, infatti, che Gesù è morto e
risuscitato; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui” (1Ts
4,13-14).
Dunque, la speranza umana, pur necessaria, s’identifica solo parzialmente con la virtù teologale (con
l'atteggiamento del cristiano), in quanto la speranza cristiana (dono che viene dall’alto) è fondata su un
evento storico. Infatti, l'affermazione “rigenerati a una speranza vivente” è motivata dalla risurrezione di
Gesù dai morti. Di conseguenza, la nostra speranza è una Persona che ha un nome che “è al di sopra di
ogni altro nome”: Gesù Cristo, il Risorto. Ecco perché, proprio nel tempo della ragione debole e del
disincanto in cui ci troviamo, occorre riuscire a dire con vigore che Cristo è la ragione della speranza che
è in noi. Se tutto appare relativo, scorrevole e oscuro, Gesù è il nostro punto stabile e luminoso. Se tutto
sembra passeggero, Cristo è per sempre ed è l’unico che promette e realizza la nostra eternità.
CHIAMATI A “DIFENDERE” LA NOSTRA SPERANZA
Il primo Papa, San Pietro, ci esorta a essere testimoni della nostra fede: “pronti sempre a render
conto… della speranza che è in noi.” (che il testo greco dice: “pronti sempre alla difesa, a rispondere in
difesa”). Siamo chiamati a saper rispondere in difesa, dunque, ma sempre “con mitezza e rispetto” (3,16).
Da qui, l’importanza di fare sempre coincidere la verità con la carità, perché la sorgente originaria di ogni
speranza è l’amore di Dio.
È vitale difendere la “speranza”, perché ci sono molte cose (tra cui l’opera malefica di satana) che la
insidiano e la vogliono strappare dal nostro cuore. Afferma la Sequenza letta nel giorno di Pasqua: “Morte
e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa...
Cristo, mia speranza, è risorto; e vi precede... ”.
È vero che Cristo nostra speranza ha vinto il duello. Il Signore della vita ormai ha l’ultima parola sulla
morte. C’è da dire, purtroppo, che questo duello è ancora in atto nella storia, nella società e soprattutto
dentro di noi: siamo combattuti tra il peccato e la grazia, tra l’egoismo e l’amore, tra la paura e la fede, tra
la disperazione e la speranza. Cristo, tuttavia, ci ha dato le armi per vincere questo duello: la Parola, la
preghiera e il suo amore; ci ha dato la Santa Chiesa e i sacramenti, ci ha dato sua Madre, Maria
Santissima, “Stella della speranza”, la Corredentrice che vincerà l’antico serpente. Afferma Giovanni
Paolo II nel suo libro Oltre le soglie della speranza: “la vittoria verrà per mezzo di Maria”, Colei che ha
avuto da Dio un ruolo unico e originale nella storia di salvezza, quello di cooperare con Cristo alla
redenzione del genere umano. Le continue e recenti apparizioni mariane stanno confermando la profezia
del Papa.
.C’è, quindi, una verità fondamentale che va rimarcata: il Regno di Dio deve venire e vincere prima
dentro di noi, solo così si realizzerà la vittoria della civiltà dell’amore. Dobbiamo “vaccinarci” contro
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l’epidemia della disperazione, tentazione che sta sempre in agguato.
Oggi la disperazione è un sentimento molto diffuso nel mondo. Non possiamo sottovalutare come il
maligno riesce a spargere i semi del suo odio e del suo veleno più con la disperazione e lo
scoraggiamento, che con tutte le altre seduzioni. Il diavolo agisce disseminando la disperazione nel cuore
dell'uomo, portandolo a non credere più nell'amore e nella misericordia di Dio.
Il “Menzognero” fa di tutto per indurci a credere che Dio non ci ama, vuole farci sentire un rifiuto, un
abominio senza speranza. Per questo la nostra speranza sta, innanzitutto, nella potenza dell'amore di
Dio. È importante crescere nella conoscenza di Dio e del suo amore, altrimenti, la nostra fede resta
distorta e quando preghiamo non otteniamo le grazie da Gesù perché non sappiamo sperare, non
sappiamo pregare in spirito e verità, perché non abbiamo fatto ancora una vera esperienza del suo
amore. Il nostro rapporto immaturo con Dio è palese quando pensiamo: “Siccome faccio delle buone
opere e digiuno ho dei meriti verso Dio. Io prego sempre, per cui Dio deve farmi questa grazia… ecc.”.
Questa mentalità è tutta sbagliata e manifesta un cattivo rapporto con Dio, la poca fiducia nella sua
volontà, il nostro tentativo di strumentalizzarlo.
L’immaturità religiosa porta l'uomo inevitabilmente a vivere senza speranza, privo di vitalità, perché
nel suo cuore non c’è più amore dentro. Per vincere il combattimento spirituale e smascherare le
menzogne propinate dai media, è importante confidare, soprattutto, nell’aiuto della Vergine Maria e usare
le armi della fede: la preghiera e il discernimento. Ci esorta San Paolo: "Rivestitevi dell'armatura di Dio,
per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia, infatti, non e contro creature fatte di carne è
di sangue, ma contro i principati e le potestà… contro gli spiriti del male che abitano le regioni celesti" (Ef
6,11-12). La grande disperazione porta a tirarsi fuori volontariamente dalla storia di salvezza che Dio
vuole realizzare con noi; molto spesso, purtroppo, ci si rende conto troppo tardi del grandissimo errore
commesso.
Pertanto, il disperare può diventare il peccato contro lo Spirito Santo, quando, cioè, non si fa agire
la Grazia, come quando si sente la chiamata dall’Alto, un fuoco che brucia dentro, e dire no (qui penso a
quante vocazioni soffocate non solo dall’abulia spirituale del chiamato, ma dal cattivo discernimento di chi
è preposto che, facendo calcoli matematici, in questo modo spegne lo Spirito).
Siamo chiamati tutti a fare la nostra parte. Se saltiamo giù dalla scena di questo mondo, pensando
che il nostro ruolo non c’interessa più, Dio troverà anche un altro attore che ci sostituisca, ma verrà il
giorno in cui ci renderemo conto della grande occasione perduta e resterà in noi la disperazione di aver
vissuto una vita forse inutile. La vera speranza, quindi, è l'antitesi della disperazione e dell'angoscia, è il
desiderio di una conoscenza che vada oltre i confini della finitezza umana.
La speranza cristiana, perciò, è qualcosa di più che essere felici sulla terra. Essa non è un’attesa
passiva, è una partenza, un mettersi in cammino, un tendere verso qualcosa, anzi, verso Qualcuno,
usando i talenti (i carismi) ricevuti in dono. Dunque, la seconda virtù teologale, così misconosciuta e
incompresa, è l’elemento basilare della nostra vita e non solo dal punto di vista umano. Infatti, soltanto
l’amore di Dio rende tutto più chiaro; anche quando non capiamo e siamo avvolti dalle tenebre del
peccato e della morte, la speranza diventa qualcosa di più del motore dell’esistenza: “Mi stringevano funi
di morte... Mi opprimevano tristezza e angoscia e ho invocato il nome del Signore: «Ti prego, Signore,
salvami». Buono e giusto è il Signore, il nostro Dio è misericordioso. Il Signore protegge gli umili: ero
misero ed egli mi ha salvato. Ritorna, anima mia, alla tua pace, poiché il Signore ti ha beneficato; egli mi
ha sottratto dalla morte, ha liberato i miei occhi dalle lacrime, ha preservato i miei piedi dalla caduta.
Camminerò alla presenza del Signore sulla terra dei viventi” (Sal 116,3-9).
La fede in Cristo risorto, nostra speranza, ci mette nella condizione di scoprire dentro di noi che cosa
ci mantiene in vita per fare leva e uscire dalla nostra possibile situazione di depressione. La speranza è
l’ossigeno della nostra esistenza e chi non spera non vive, ma vegeta. La speranza è necessaria all’uomo
soprattutto per lottare contro quello che reputa il nemico più assurdo e imbattibile che da sempre lo
insegue senza tregua sino alla fine: l’idea della morte.
È certo che Cristo nella Parusia apparirà trionfante, portando la sua liberazione dalla morte. Ecco
perché l’atteggiamento del cristiano è di speranza e non di paura, nonostante le difficoltà della vita.
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C’è da considerare che: ANCHE DIO SPERA.
Dio, come sempre, prende l’iniziativa, ebbene, anche nella speranza “Dio ci ha prevenuto”, perché Lui
spera in noi. L’amore per l’uomo peccatore, il timore di perderlo e l’ansia per la sua salvezza: “ha fatto
tremare il cuore di Dio del tremore stesso della speranza. Ha introdotto nel cuore stesso di Dio la
teologale speranza” (diceva Charles Péguy, scrittore e poeta francese).
Il Creatore, che è tutto e ha tutto, ha qualcosa da sperare proprio da noi peccatori. A causa della
nostra libertà si è messo nella condizione di dover sperare, di attendere un sì da noi liberi di poter
peccare. Il Padre Buono “ha messo nelle nostre mani, nelle nostre deboli mani, la sua speranza eterna”
(dice ancora Péguy). Ogni conversione dell’uomo “è coronamento di una speranza di Dio”:
Ecco perché noi cattolici non crediamo nella predestinazione, bensì confidiamo nella speranza di Dio
che ci ha creati con un desiderio, con la speranza di averci nel suo Regno, confidando nella capacità
dell’uomo di riconoscere il suo grande amore e la sua salvezza.
Un altro aspetto da considerare: ANCHE LE ANIME SPERANO.
Nel passato, la difficoltà ad accogliere la verità sulla risurrezione dei corpi era legata alla cultura
greca, in particolare alla dottrina di Platone sull'immortalità dell'anima, accompagnata da una marcata
disistima per il corpo. Pertanto, era impensabile che l'anima liberata dal corpo ritornasse alla sua
prigionia, e che questo ritorno fosse un traguardo glorioso. San Paolo sperimenterà, infatti, l'ostilità dei
greci nell’Areopago di Atene circa la verità della risurrezione dei corpi: “Quando sentirono parlare di
risurrezione di morti, alcuni lo deridevano, altri dissero: Ti sentiremo su questo un'altra volta." (At 17,32).
La Rivelazione, invece, attesta non solo la storicità della risurrezione di Gesù, ma che tutti insieme
formiamo in Cristo una sola famiglia (crediamo nella comunione dei santi), la Chiesa, terrestre e quella
celeste sono un’unica realtà. Perciò, le anime del Purgatorio sperano molto nell’aiuto delle nostre
preghiere, poiché confidano di passare presto a miglior vita e contemplare il volto di Dio.
Le anime nel Paradiso, che godono già della gloria di Dio, invece, intercedono per noi. Esse, quindi,
pregando per noi, hanno fiducia in noi, sperano nella nostra salvezza. Inoltre, bisogna considerare che la
loro condizione beata, pur godendo della felicità della visione divina, non è ancora pienamente compiuta,
manca a loro la carne, manca il corpo risorto e trasfigurato.
La risurrezione finale è speranza di felicità dell'anima individuale. Per il cristianesimo, infatti, ha
importanza non solo l’anima, ma tutto l’uomo, poiché, senza il corpo, siamo incompleti. Pertanto l’anima,
separata dal corpo a causa della morte, si trova in uno stato di attesa della resurrezione del corpo: "Di
questo gioisce il mio cuore, esulta la mia anima; anche il mio corpo risposa al sicuro, perché non
abbandonerai la mia vita nel sepolcro…" (Sal 15,9-10). Per questo motivo, per l'anima dei defunti la
speranza nella risurrezione dei corpi è certezza, in quanto: “Ciò che si spera, se visto, non è più
speranza” (Rm 8,24).
L’anima in paradiso potrà godere della piena beatitudine solo quando il suo corpo sarà trasfigurato.
Solo allora si avrà il compimento del progetto di Dio sull’uomo che diventerà ciò per cui è stato creato:
essere veramente l’uomo dell’eternità, partecipe della stessa natura di Dio.
La speranza cristiana va intesa, quindi, come: “La passione dell’uomo per le inaudite e inconcepibili
possibilità della Speranza che Dio nutre nelle sue creature ”.
Tra le inaudite possibilità della Speranza c’è la partecipazione dell’uomo alla vita di Dio, c’è, quindi, la
gioia dell’anima e del corpo, nell'attesa della parusia, della risurrezione della carne: “Nell'attesa di quel
giorno, il corpo e l'anima del credente già partecipano alla dignità di essere « in Cristo »” (CCC 1004). La
speranza cristiana contiene la restaurazione integrale della persona; quindi anche la trasformazione totale
del corpo, che diverrà spirituale, incorruttibile e immortale (cfr 1Cor 15,35-53). L’ultimo libro sacro ci
rivela: “E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose»; e soggiunse: «Scrivi,
perché queste parole sono certe e veraci. Ecco sono compiute! Io sono l`Alfa e l`Omega, il Principio e la
Fine. A colui che ha sete darò gratuitamente acqua della fonte della vita. Chi sarà vittorioso erediterà
questi beni; io sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio.” (Ap 21,5-7).
Proprio perché Dio fa nuove tutte le cose, anche il creato spera. Dice san Pietro: “…secondo la
sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova” (2Pt 3,13.).
È sorprendente e misterioso ciò che San Paolo afferma in Romani (8.19-20): “La creazione stessa
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attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio… e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla
schiavitù della corruzione…”. Esiste un anelito molto profondo non solo in noi, ma addirittura nel cuore di
tutto il creato per un’altra dimora. L’universo e il mondo presente, con tutta la loro meravigliosa bellezza,
non possono paragonarsi alla felicità che ci aspetta quando Dio nella parusia farà cieli nuovi e terra
nuova.
MA… COME SI PUÒ TRASMETTERE LA SPERANZA CHE È IN NOI?
È opportuno sottolineare che San Pietro non dice: la speranza di cui avete appreso la dottrina,
date l’annuncio, ma dice: “la speranza che è in voi”. Si può comunicare la speranza solo se si spera
veramente; e veramente si spera solo se in noi c’è l’amore sperante di Dio, se è Dio che spera in noi e
attraverso di noi. Solo allora anche noi possiamo “tutto sperare, tutto sopportare” (cfr 1 Cor 13,7), con la
forza dell’amore, che ci fa essere veri testimoni gioiosi di speranza viva.
L'uomo sembra aver perso la consapevolezza della gratuità dell'amore di Cristo, invece, è proprio
l’esperienza della verità e della totale gratuità dell'amore di Dio che ci fa acquistare la speranza. Quindi, la
speranza si trasmette con il racconto della nostra speranza, dell’Incontro personale con Lui che ha
cambiato la nostra vita. Oggi come ieri, si può comunicare la speranza solo attraverso un “racconto”, nel
quale il testimone dice come si è lasciato plasmare e riempire la vita dall’incontro sconvolgente con il
Risorto. “Poiché nella speranza siamo stati salvati” (Rm 8,24), nella speranza vivente si diventa,
gradualmente, veri cristiani nella fedeltà.
Tutta la Bibbia è un racconto di speranza. L’A.T. ci presenta la speranza nella figura di Abramo;
colui che, “chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza
sapere dove andava” (Eb 11,8); e così, “sperando contro ogni speranza”, è divenuto “padre di tutti noi”
(Rm 4,16-18). La speranza è parte integrante della storia del popolo di Israele, l’attesa del Messia è
mantenuta viva dai numerosi profeti (vedi Isaia, Geremia, Osea, Sofonia, Ezechiele, Amos, Aggeo,
Malachia, ecc.). Il popolo ebraico attendeva un nuovo liberatore dalle sue diverse schiavitù. In particolare,
era la maggioranza paziente che sperava nella venuta del Messia. Lo aspettavano con ansia gli smarriti
di cuore, i ciechi, gli storpi, i poveri di Jahvè (cfr. Is 40), quelli che la Sacra Scrittura chiama gli anawim, gli
schiavi e gli oppressi, coloro che vivono di stenti e, per questo, hanno imparato ad aprire il cuore a Dio.
Essi sono i miti delle beatitudini, perché hanno un atteggiamento di speranza e di fiducia totale in Dio.
Il Vangelo è per gli Anawim ed è più di un libro sacro, è una Persona, è il Verbo di Dio incarnato,
morto e risorto per la nostra liberazione. Il racconto della speranza, quindi, non è riportare una vicenda
del passato, bensì, è narrare l’incontro del testimone con il Risorto per far sorgere, in chi vede e ascolta, il
desiderio di cercare Gesù e decidere di mettersi alla sua sequela.
La testimonianza non narra solo il contenuto della speranza cristiana, ma indica anche il cammino per
conquistarla. È fondamentale fare questa esperienza per la conversione. Solo l’incontro con il Risorto
trasforma la mentalità e la vita dei credenti, e sostiene il loro impegno per la costruzione della civiltà
dell’amore.
Oggi si parla di emergenza educativa, piuttosto
LA GRANDE EMERGENZA DI OGGI È EDUCARE ALLA SPERANZA
Ci chiediamo: Nelle nostre comunità cristiane è alimentata la speranza di un rinnovamento?
Quale speranza c’è in noi? Sono molti coloro che non desiderano avere un cuore nuovo, piuttosto, una
macchina nuova… ecc. Tante volte riponiamo la nostra speranza e la nostra sicurezza sul denaro, sul
lavoro, sulla carriera, sugli idoli… Queste sono sicurezze effimere, che ci creano solo ansie e problemi.
Fino a quando non siamo capaci di staccarci dalle sicurezze del mondo, non potremo mai riporre la
nostra speranza in Cristo. Solo in Lui c’è garanzia di realizzazione, Egli è la presenza reale in mezzo a
noi dell’amore divino in persona “Sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del tempo" (Mt 28,20). Dio, con il
dono dello Spirito di speranza, ci porta verso la piena comunione con Lui, con noi stessi e con il prossimo.
COME EDUCARCI CONCRETAMENTE ALLA SPERANZA?
La “Spe salvi” ci aiuta a fare discernimento: “Ogni agire serio e retto dell’uomo è speranza in atto” (n.
35). È opportuno far parlare il Papa Benedetto XVI: “Per educare alla speranza, è anzitutto necessario
aprire a Dio il nostro cuore, la nostra intelligenza e tutta la nostra vita, per essere così, in mezzo ai nostri
fratelli, suoi credibili testimoni… Anzitutto la preghiera, con la quale ci apriamo e ci rivolgiamo a Colui che
è l’origine e il fondamento della nostra speranza. Attraverso la preghiera impariamo a tenere il mondo
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aperto a Dio e a diventare ministri della speranza per gli altri. Desidero sottolineare piuttosto
quell’atteggiamento e quello stile con cui lavora e si impegna colui che pone la sua speranza anzitutto in
Dio. E’ in primo luogo un atteggiamento di umiltà, che non pretende di avere sempre successo, o di
essere in grado di risolvere ogni problema con le proprie forze. Ma è anche, e per lo stesso motivo, un
atteggiamento di grande fiducia, di tenacia e di coraggio: il credente sa infatti che, nonostante tutte le
difficoltà e i fallimenti, la sua vita, il suo operare e la storia nel suo insieme sono custoditi nel potere
indistruttibile dell’amore di Dio; che essi pertanto non sono mai senza frutto e privi di senso. In questa
prospettiva possiamo comprendere più facilmente che la speranza cristiana vive anche nella sofferenza,
anzi, che proprio la sofferenza educa e fortifica a titolo speciale la nostra speranza.”.
LA DIACONIA DELLA SPERANZA.
È vero, questo tempo è buio, ma solo di notte si vedono bene le stelle (P. Casaldáliga).
I diaconi, come tutti i credenti, sono chiamati a brillare, a essere stelle nella notte. Il ministero ordinato
del diacono, aperto alla carità fraterna e alla promessa della risurrezione, si pone come segno ministeriale
della speranza cristiana. Deve essere evidente a tutti che noi diaconi se abbiamo sentito la chiamata al
servizio è perché c’è stato un incontro intimo con Lui. Per questo è proprio dei diaconi amministrare il
servizio della speranza cristiana, in particolare attraverso la diaconia della parola e della dedizione
prestata agli ultimi e ai piccoli in nome di Cristo.
L’episodio dell’incontro del diacono Filippo con l’etiope ci insegna come svolgere il nostro
ministero: Gli parlò l’angelo del Signore: “Alzati e va verso il mezzogiorno sulla strada che discende da
Gerusalemme a Gaza; essa è deserta” (Atti 8,26).
Afferma il card. S. Piovanelli: “Quelle parole alzati e va sulla strada sono particolarmente adatte ai
diaconi: il diacono abbina il carattere clericale del sacramento con il carattere laicale della condizione di
vita. Per il diacono è più facile obbedire all’ordine di andare sulla strada, lui che, in un certo modo, sulla
strada c’è già. Sembra che l’angelo gli dica: sulla strada non c’è nessuno, la strada è deserta ma tu non
aver paura, vacci lo stesso e incontrerai qualcuno che ha bisogno di te; ma bisogna correre avanti sino a
raggiungere l’uomo nella sua situazione e, camminandogli accanto, offrirgli l’occasione di invitarti a salire
per ascoltare quello che ha da dirti: figura di tutta la Chiesa che cammina accanto all’uomo nella storia.
L’episodio di Filippo si conclude con queste parole: “L’eunuco proseguì pieno di gioia il suo cammino”. I
diaconi contagiano di gioia le persone che incontrano. Vivendo intensamente la diaconia della speranza, i
diaconi effettivamente aiutano l’uomo di oggi a proseguire pieno di gioia il suo cammino nella storia.”
Chiediamo al Signore che ci conceda di essere fedeli alla nostra vocazione, ovvero, di essere dei
servi anche inutili, di restare nell’umiltà, nella consapevolezza di essere delle “lampadine” che si possono
accendere e illuminare solo se si lasciano attraversate dalla “corrente” dello Spirito Santo. Rendiamo
grazie a Dio che ci ha donato Maria Santissima, Stella della Speranza, la quale ci insegna che se siamo
umili, Dio può fare gradi cose in noi. In Lei si è realizzato ciò che Gesù disse sulla montagna:
“Beati gli anawim, i poveri in spirito…”, perché essi saranno veri ministri della Speranza.
Sì, perché, i veri servi sono “i poveri di Dio”, essi non si sentono superiori agli altri, confidano solo in Dio e
la loro unica ambizione è di servire, perché solo i servi permanenti saranno chiamati amici da Dio.
Ringraziamo il Signore Dio che libera quanti sperano in Lui e facciamo nostra la preghiera del
salmista che ci insegna come pregare in spirito e verità: “Solo in Dio riposa l'anima mia, da lui la mia
speranza" (Sal 62,2). Con perseveranza, sostenuti dallo Spirito di speranza che Dio ha effuso nei nostri
cuori, invochiamolo: “Vieni, Signore Gesù”. Questo è il grido struggente che tutta la Chiesa innalza al
Signore in attesa della Sua venuta: “Lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni!». E chi ascolta ripeta: «Vieni!»…
(Cristo) Colui che attesta queste cose dice: «Sì, verrò presto!». Amen. Vieni, Signore Gesù. La grazia del
Signore Gesù sia con tutti voi. Amen!” (Ap 22,17.20).
Quarto, Napoli 13 - 04 – 2010 mario d’agosto

http://www.diocesipozzuoli.org/uploads/tinymce/9/SPERANZA.pdf

OMELIA ESEQUIALE PER FRISON ROSINA IN VERBASCO

Ci ritroviamo qui raccolti in preghiera tra due grandi solennità: ieri la festa del patrono della parrocchia, il Sacro Cuore di Gesù e domani la festa di S.Antonio, per dare il saluto cristiano alla nostra sorella Rosina che ha lasciato per sempre questa terra ,che ha lasciato definitivamente questo mondo per precederci nel Patria eterna, per reincontrare il consorte dopo la separazione drammatica dell’ improvvisa morte del marito Luigi,deceduto a pochi passi da casa, un distacco che lasciò un vuoto incolmabile e una perdita troppo importante per essere colmata in una persona fragile e insicura.
Il 3 aprile 1995 il Signore aveva chiamato a sé Luigi in quel modo che tutti conosciamo,improvvisamente sulla strada che lo portava a casa e aveva lasciato la moglie Rosina con la pesante croce del dolore:
1. la perdita della persona più cara:il marito,persona con la quale condivideva gioie e dolori,un marito che disbrigava con diligenza tutti gli affari della famiglia,
2. Quattro anni di separazione, di solitudine, quattro anni con numerosi dolori e malanni che l’avevano colpita .

Siamo qui raccolti per le esequie della nostra sorella ,per una preghiera comune al Signore della vita ,in suffragio della sua anima, siamo qui raccolti per un gesto di pietà e di carità verso una persona conosciuta , amata, da tutti stimata e da tutti ben voluta, perché nella sua bontà rassomigliava alla cara Maria Amplatz. Quanta gente si è reacata a trovarla in ospedale, quanti fedeli alla recita del S:Rosario ieri sera, quanta gente oggi e perché? Perché tutti hanno riconosciuto in lei la rettitudine della vita e una autentica testimonianza di semplicità e di umiltà.

Non posso in questa omelia non sottolineare quel suo vivere in semplicità, quel vivere in povertà di spirito, quell’ accogliere tutti con un sorriso senza mai perdere la pazienza e la tranquillità, una donna che possiamo catalogare tra i poveri di Dio, i cosidetti anawim nel Primo Testamento o quei discepoli per i quali dice il vangelo:”beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli”. Nel Vangelo è stata proclamata la pagina delle betitudini, una pagina che tutti conosciamo bene, una pagina che fa parte del discorso programmatico del Maestro Gesù.
Vivere in povertà, vivere con mansuetudine e con misericordia verso il prossimo, vivere con purezza e nella ricerca e nella costruzione della pace, vivere da afflitti portando ogni giorno il giogo della croce .

In quel tempo Gesù disse: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli, Allora Gesù fece venire avanti a sé un bambino e disse: “Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio”.

Negli ultimi anni Rosina voleva ricevere in casa la Comunione ogni primo venerdì del mese, ed anche in tante feste solenni e domeniche,Rosina si nutriva del Pane, Corpo del Signore, pegno e garanzia di immortalità, viatico nel pellegrinaggio terreno e vero nutrimento specie nella fatica e nel dolore; con trepidazione aspettava il sacerdote ed anche ultimamente ha ricevuto l’Eucaristia ed ha chiesto la benedizione pasquale della su casa, casa alla quale era molto affezionata, perché luogo di ricordi, rifugio e un vero santuario per le persone ormai anziane ,ammalate e in difficoltà.

La Parola di Dio ci esorta a riflettere e a pensare all’oltre della vita terrena, al dopo di questa vita, alla dimora eterna come dice l’Apostolo:”Sappiamo infatti che quando verrà disfatto questo corpo, nostra abitazione sulla terra, riceveremo un'abitazione da Dio, una dimora eterna, una casa non costruita da mani di uomo, nei cieli”. Lassù ove tanti nostri fratelli ,amici e conoscenti più o meno giovani e ora anche la nostra sorella Rosina ci attendono , in quell’eternità dove non esistono il dolore e la precarietà,la croce e la morte.
Rosina ha avuto la fede dei semplici, la speranza dei giusti, la serenità e il sorriso di chi ha la coscienza pura. In ogni primo venerdì mi chiedeva sempre degli altri ammalati, ma non per curiosità o altro, ma perché si sentiva davvero solidale con tutti. Dopo un calvario di dolori fisici, di amarezze che tentava di nascondere,di sconforto interiore e di delusioni,il Signore ha bussato alla sua porta, era giunta la sua ora.
Circondata dall’affetto dei familiari e dall’interessamento di molta gente,Rosina ci ha lasciato l’immagine una persona di fede,di una persona serena e davvero gioviale con tutti.

Faccciamo cosa giusta ricordare e pregare, siamo qui raccolti proprio per darle il nostro saluto cristiano, ma ancor più giusto è cogliere e vivere il messaggio umano e cristiano che Rosina ci ha lasciato con la sua vita.
Un messaggio evangelico che si può racchiudere in due parole: semplicità e cordialità.
1.Semplicità. Questa è una occasione buona che il Signore ci dona per interrogarci tutti sull'origine dell'inquietudine , dell’infelicità esistenziale di tante persone,che illudendosi di trovare finalmente la pace interiore, cercano la felicità e il paradiso nelle cose .
2.Cordialità sinonimo di bontà. Non si poteva litigare con Lei, non dava a nessuno occasione per odi o divisioni, il suo operare era trasparente e alieno da ogni sotterfugio,Rosina è per tutti noi un invito a vivere nella verità, specie quando per tanti conta più l’apparire che l’essere, conta più la maschera o le maschere per sembrare quello che non si è .

La nostra sorella Rosina ci lascia in eredità la sua silenziosa e nascosta testimonianza di fede cristiana.
Una morte nel Signore,una testimonianza di fede nella vita per tutti.

Preghiera.Il credo dei sofferenti.

Credo che il dolore purifichi e migliori e possa condurre alla più alta perfezione. Credo che il dolore, sopportato con amore e rassegnazione, sia una grande riparazione dei peccati. Credo che Dio cerchi coloro che soffrono per lui. Credo che il dolore, sopportato con amore e rassegnazione, sarà glorificato nell'eternità. Credo che il dolore sia ciò che più ci unisce intimamente al Signore Gesù, facendoci somigliare a Lui. Credo che il dolore racchiuda segreti e ineffabili consolazioni per coloro che si sottomettono umilmente, e che ispiri un amore sincero e più pieno verso Dio. Credo che il dolore, sopportato con amore e rassegnazione, abbia più merito di qualsiasi altra opera. Credo che da tutta l'eternità Dio abbia contato il numero e misurato l'intensità dei dolori e abbia preparato in proporzione la sua grazia e la sua ricompensa. Credo che il dolore, sopportato con cristiana rassegnazione, sia un segno dell'amore e della predestinazione. Credo che il dolore, unito a quello di Gesù, sia il mezzo più fecondo per convertire e salvare gli uomini.
http://www.vaticanoweb.com/preghiere/sofferenti.asp

Parlare di speranza oggi

Nessun essere umano può vivere senza sperare. Portiamo dentro una profonda
inquietudine che ci proietta sempre in avanti. Quando raggiungiamo degli obiettivi
guardiamo sempre oltre.
Questo avvenire che desideriamo migliore e aperto a delle novità. E’ l’avvenire
che noi costruiamo mediante il nostro lavoro quotidiano e con i nostri vari impegni
nella famiglia, nella professione e nella società. E’ in questa direzione che
indirizziamo ogni nostro desiderio; da esso aspettiamo di poterci realizzare. Poiché se
taluni desideri immediati si possono realizzare subito, non è lo stesso per quel
desiderio radicale che ci abita e ci costituisce profondamente.
Quest’ultimo è l’espressione di una mancanza, e, come un miraggio nel
deserto che si allontana quando ci sembra di raggiungerlo. Finché viviamo niente può
soddisfarlo totalmente. Accarezziamo sempre l’attesa di un futuro migliore e tutto ciò
che ci manca nel presente , speriamo che ci sarà donato più tardi o al più presto.
Anche quando formuliamo degli auguri esprimiamo il desiderio di realizzare
qualcosa di meglio che al presente non ci è dato. Gli auguri quasi sempre sono molto
generosi e eccessivi. Siamo coscienti del sogno che li abita?
E ragionevole sperare? Per tanti uomini sperare è lasciare aperta una porta
verso il futuro migliore e in ogni caso vivere in cammino. Per altri, filosofi del
passato e del presente, la speranza è una passione irragionevole dal quale il saggio
deve liberarsi per entrare nella regione della serenità perfetta. Per gli stoici il saggio
deve desiderare ciò che ha senza proiettarsi verso l’avvenire. Anche la sapienza Indù
si muove in questa direzione: “ E’ felice solo colui che ha perso ogni speranza,
perché la speranza è la più grande tortura che ci sia e la disperazione la più grande
felicità
LA SPERANZA CRISTIANA
La fede cristiana non ci sradica dalla nostra condizione umana: Essa si iscrive nel
cuore dei nostri atteggiamenti fondamentali per trasfigurarli. Essa fa della speranza
una “virtù teologale”, cioè un dono di Dio e una virtù orientata verso la salvezza
promessa da Dio. Seguendo l’insegnamento di Paolo nell’inno alla carità di Corinti
cap. 13, la speranza si pone tra la fede che è fondamento di tutto e la carità che non
passerà mai.
Una speranza fondata
L’uomo non può vivere senza speranza. Come scrive K. Rahner, l’uomo è questo
essere che ha “l’audacia di sperare”, e di sperare anche oltre i limiti di questa
esistenza terrestre in un atteggiamento che si può chiamare religioso. Ma le nostre
speranze sono spesso deluse. Così la questione è di sapere se esse restano legittime o
se, a forza di girare a vuoto, non costituiscono una forma di testardaggine
2
irragionevole. Ora la tipicità del cristianesimo è di dirci che la nostra speranza è
fondata, che essa si indirizza a qualcuno che si vuol fare nostro partner facendo
alleanza con noi: non solamente Dio esiste, ma noi esistiamo per Dio, che si avvicina
all’uomo per donarsi a lui. La nostra ragione di sperare è quindi Dio, Dio che ha
concretizzato la sua benevolenza nei nostri riguardi inviandoci il suo Figlio, il “Cristo
Gesù nostra speranza” (1Tm 1,1).
Il movimento che ci spinge a sperare un futuro migliore, un avvenire definitivo
e pienamente felice che chiamiamo salvezza, è qui fondato in Dio sul quale fondiamo
la nostra fede. E’ la fede che ci dà la ragione di sperare. Celso un pagano del II secolo
che ha scritto un panflet anticristiano di una rara violenza, diceva che i cristiani gli
facevano pensare a un gruppo di rospi che gracidano in uno stagno che pretendono
che Dio si occupi di loro. Celso caratterizzava così, con la lucidità dell’avversario, il
carattere inaudito della speranza cristiana.
La speranza riposa sulla promessa
La speranza cristiana è legata a un senso della storia che progredisce nella linea
del tempo, continuo- lineare e non ciclico, dove qualche cosa si costruisce per ognuno
come anche per l’umanità. La salvezza si fa dunque passato, presente e avvenire. Il
passato è dato nel dono irreversibile della venuta di Gesù, morto sotto Ponzio Pilato e
risorto; il presente nella caparra dello Spirito che ci fa vivere giorno dopo giorno
nell’intimità divina; l’avvenire nella promessa del ritorno di Cristo alla fine dei tempi,
della resurrezione dei morti e della “vita eterna”. La nostra salvezza resta un oggetto
di speranza, perché “vedere ciò che si spera non è più sperare” (Rom. 8, 24). I primi
cristiani erano fondamentalmente rivolti verso questo avvenire nell’attesa e nella
speranza: “Marana tha: vieni Signore Gesù!” ( Ap. 22, 20).
La promessa caratterizza la speranza giudaica, fondamentalmente messianica e
interamente rivolta verso l’avvenire. E’ con Abramo che comincia la lunga storia
della speranza nella Bibbia. Egli ha creduto alla promessa che gli era stata
fatta:«sperando contro ogni speranza» (Rom. 4, 18), e i credenti dell’Antico
Testamento sono quelli “ che per primi hanno sperato in Cristo” ( Ef. 1, 12). Nei
salmi la speranza è fiducia in colui nel quale si può sperare«Spera nel Signore e sii
forte, si rinfranchi il tuo cuore e spera nel Signore» ( 27,14). L’antico Testamento ci
rivela che noi abbiamo qualcuno sul quale fondare la nostra speranza.
La speranza cristiana è fondata su un primo compimento della promessa, su
l’evento pasquale di Gesù Cristo e il dono dello Spirito a Pentecoste (At. 2, 33- 39).
Anche la Lettera agli Ebrei presenta la venuta di Gesù come «l’introduzione di una
speranza migliore» (7, 19). Paolo aveva già detto:«La nostra salvezza è oggetto di
speranza» (Rom. 8, 24). Anche il mistero cristiano resta dunque rivolto verso
l’avvenire, verso la dimensione escatologica, cioè definitiva e finale della salvezza.
Cf. Jurgen Moltmann, La teologia della speranza.
Alla luce della rivelazione usciamo dalla ambiguità delle speranze umane e
posiamo affermare con certezza:«La speranza non delude , perché l’amore di Dio è
3
stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo che ci è stato dato»
(Rom. 5, 5).
La speranza è escatologica: essa trascende i limiti della nostra esistenza terrestre. «Se
poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da
compiangere più di tutti gli uomini» (1 Cor. 15, 19). Perché l’ultima tappa e l’oggetto
finale della nostra speranza, è di vedere Dio così com’è per vivere di Lui (1 Gv. 3, 2).
La fede, la speranza e l’amore
E’ Paolo che nel Nuovo Testamento è il grande dottore della speranza. Di fatto
egli ha insegnato quanto di fatto viveva, questo dinamismo che lo spinge in avanti in
una corsa verso l’incontro definitivo con Cristo. Tale appartenenza della speranza al
centro del mistero cristiano trova la sua corrispondenza nella nostra vita spirituale..
Tutti noi conosciamo il testo splendido di Paolo nel quale egli canta un inno alla
carità e sottolinea la sua interazione con la fede e la speranza.
«Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità» (1 Cor.
!3, !3).
Questa è l’origine della dottrina cristiana delle tre “virtù teologali”. La
speranza, o la fiducia, è un aspetto della fede, caratteristica fortemente sottolineata
dallo stesso Paolo nella Lettera ai Romani. Anche l’amore di cui noi viviamo è
abitato dalla fede e della speranza.«L’amore tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto
sopporta» (1 Cor 13, 7). O ancora, la fede «Noi infatti per virtù dello Spirito,
attendiamo dalla fede la giustificazione che speriamo» (Gal 5,5). Quanto alla Lettera
agli Ebrei, essa definisce la fede come «garanzia [lett. sostanza] dei beni che si
sperano e prova di quelli che non si vedono» ( Ebrei 11, 1).
Le eresie della speranza
I poeti greci ci hanno detto che la speranza può essere un vizio come anche una virtù.
La speranza può, come d’altra parte ogni virtù, slittare in atteggiamenti che possono
pervertirla.. Si può peccare contro la speranza o per difetto o per eccesso. La
tentazione “pelagiana” rappresenta una prima forma. L’errore qui nasce dal fatto che
si spera più in se stessi che in Dio, si conta più sui propri meriti, ci si crede forti per
l’avvenire, e si cade nella presunzione che la propria salvezza è un fatto acquisito,
mentre S. Agostino ci insegna che la perseveranza finale è “un grande dono” di Dio.
Tale presunzione è temeraria e proietta verso una speranza ingannatrice.
Al contrario ogni uomo può cadere nella disperazione. Ciò può accadere anche
a un cristiano. Questa tentazione si presenta più spesso con l’età avanzata, quando le
condizioni della vita divengono difficili, quando un forte sentimento di abbandono e
di solitudine invade l’essere umano. Si perde la speranza in Dio perché si è persa
quella in sé stessi. E’ in questo momento che siamo invitati come Abramo a sperare
contro ogni speranza.
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Un’altra eresia della speranza è il quietismo, inteso come un amore per Dio
puramente passivo che si disinteresserebbe totalmente della dimensione anche
concreta della salvezza e di ciò che è necessario fare per poterla ricevere.
C’è una speranza delle cose terrestri ?
La speranza cristiana che proietta l’uomo essenzialmente verso una salvezza eterna,
la vita eterna, ha anche una dimensione terrena. Altrimenti rischierebbe di introdurci
dentro un’utopia astratta. La speranza giudaica si indirizzava largamente, e in primo
luogo , verso i beni terreni, la fecondità dei campi e dei greggi, una discendenza
numerosa.
E’ dunque totalmente legittimo sperare la realizzazione dei beni temporali, a
condizione che queste piccole speranze non diventino degli idoli chiudendo il nostro
cuore alla grande speranza che costituisce il senso e la prospettiva delle cose.
In altri termini noi desideriamo- speriamo questi beni con la prospettiva che ci
aiuteranno ad amare Dio e il prossimo senza perdere questa armonia essenziale.
In questo direzione è totalmente legittimo pregare per ottenere qualcosa. Come
ogni preghiera che riguarda l’ordine delle cose temporali, essa deve avere come
condizione il fatto che l’oggetto della domanda entri nel progetto di Dio su di me e su
gli altri.
La speranza ci aiuta ancora nella nostra vita temporale apportandoci gioia,,
pace, consolazione e forza (Rom 15,14). Essa è particolarmente preziosa nel tempo
delle afflizioni e della prova (Rom 5, 2; 2 Con 1, 12; Ebrei 3, 6). A volte siamo in
situazioni nelle quali dobbiamo continuare a sperare verso e contro tutto. Per questa
ragione è utile e anche necessario pregare per essere aiutati a conservare la speranza,
come si prega anche perché il Signore ci aiuti a restare saldi nella fede.
Ma c’è qualcosa di più: la speranza cristiana, speranza “teologale”, richiede a
noi in spirito di carità di lottare per la giustizia nella città terrestre per preparare la
città futura. Ci riferiamo alla scena del giudizio finale di Matteo 25 : Gesù
ricompensa quelli che lo hanno riconosciuto negli affamati, nei malati, nei prigionieri
e in tutti i poveri del mondo. La nostra speranza nella città celeste non deve
sganciarci dalla situazione presente e deve stimolarci alla responsabilità e
all’impegno.
Noi crediamo fermamente che niente è perduto di tutto ciò mettiamo in opera
mossi dalla fede, la speranza e l’amore.
Il Papa Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi tra i luoghi di apprendimento e di
esercizio della speranza colloca l’agire e il soffrire. Egli afferma:«Ogni agire retto e
serio dell’uomo è speranza in atto.[ …] con il nostro impegno dare un contributo
affinché il mondo diventi un po’ più luminoso e umano e così si aprano anche le
porte verso il futuro. Ma l’impegno quotidiano per la prosecuzione della nostra vita e
per il futuro dell’insieme ci stanca o si muta in fanatismo, se non ci illumina la luce
di quella grande speranza che non può essere distrutta neppure da insuccessi nel
piccolo e dal fallimento in vicende di portata storica. Se non possiamo sperare più di
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quanto è effettivamente raggiungibile di volta in volta e di quanto le autorità
politiche ed economiche ci offrono, la nostra vita si riduce ben presto a essere priva
di speranza. E’ importante sapere: io posso sempre ancora sperare, anche se per la
mia vita e per il momento storico che sto vivendo apparentemente non ho più niente
da sperare. Solo la grande speranza- certezza che, nonostante tutti i fallimenti, la
mia vita personale e la storia nel suo insieme sono custodite nel potere indistruttibile
dell’Amore e, grazie ad esso, hanno per esso un senso e una importanza, solo una
tale speranza può in quel caso dare ancora il coraggio di operare e di proseguire.»
(n.35)
***
A proposito del senso che bisogna trovare negli eventi, il padre Timothy
RADCLIFFE, nel suo volume dal titolo Perché dunque sono cristiano?, cita questa
frase dello scrittore Vaclav Havel ex presidente della Repubblica ceca:«La speranza
non è la convinzione che le cose avranno un lieto fine; è la certezza che le cose
hanno senso». E il p. Tmothy continua :«E’ la convinzione che si rivelerà un giorno
che tutto ciò che viviamo, momenti felici e momenti di tristi, hanno un senso. La
speranza del paradiso non è la speranza del trionfo di qualche forza cieca: quella
delle armi o dell’economia. E’ la speranza della vittoria finale e inimmaginabile del
senso. La nostra storia comincia con una parola pronunciata da Dio, una parola che
crea ogni cosa. “Dio disse: Sia la luce”. E la luce fu” (Gen 1, 3). Esistere significa
essere evocato dal nulla e mantenuto nell’esistenza dalla Parola di Dio. E
comprendere le cose non è imporre loro un senso, ma entrare in contatto con
creatore che dà l’esistenza» (pp. 28- 29).
Dalle speranze alla grande speranza, abbiamo percorso un itinerario continuo e
discontinuo.
Continuo perché la grande speranza non può essere estranea alle nostre
speranze umane e l’intervento della fede non soppianta in niente la nostra condizione
umana. La grande speranza non costituisce un alibi alla nostra negligenza e alla
nostra pigrizia. Restiamo sottomessi a l’etica immanente di ogni agire della speranza
umana.
Discontinuo perché la fede e la speranza cristiane ci danno la certezza che esse
sono fondate in Dio e attestate dal dono di Cristo che è già venuto e che verrà. E’ per
questa ragione che dobbiamo ascoltare l’appello della Prima Lettera di Pietro: «Siate
sempre pronti a rendere ragione della vostra speranza a quelli che ve lo domandano»
(3, 15).

http://www.idracireale.org/copia/ufficio/08/Parlare_di_speranza_oggi.pdf

martedì 30 agosto 2011

LA VIRTÙ DELLA SPERANZA

La seconda delle virtù teologali è la SPERANZA. Di questa noi parleremo stasera e vedremo: che cosa sia questa virtù; quali cose dobbiamo noi sperare da Dio; quanto essa sia necessaria e come sia necessario esercitarsi nei suoi atti; infine su quali motivi si poggia; il tutto con la massima brevità per non abusare troppo della vostra pazienza.

Due mali causò nell'uomo il peccato originale: 1) lo rese cieco togliendogli la vista; 2) lo rese debole togliendogli le forze. Ora che fece la misericordia di Dio per rimediare a questi due mali? Infonde la fede per illuminare le tenebre della sua mente; e gli dona la speranza per rinvigorire la debolezza della sua volontà. La speranza dunque è come la fede un dono di Dio, dono soprannaturale che noi non abbiamo meritato con le nostre forze naturali, ma che gratuitamente ci ha dato il Signore insieme con la fede e con la carità nel santo Battesimo; dono di cui sono privi tutti quelli che non hanno avuto la sorte di essere lavati, come noi, nelle acque battesimali. Per mezzo di questo dono inestimabile, per i meriti di Gesù Cristo e mediante la divina grazia, con le nostre buone opere noi aspettiamo con ferma fiducia, la beatitudine eterna del Paradiso; e l'aspettiamo per ché Dio onnipotente, misericordioso e fedelissimo ce l'ha promesso. Oh! bella e santa virtù della Speranza! Tutti, dunque, nobili e plebei, ricchi e poveri, dotti ed ignoranti, debbono sperare il Paradiso? Sì, tutti, non solamente quelli che si sono sempre conservati nell'innocenza, ma anche quelli che l'hanno perduta col peccato e sono attualmente peccatori, purché vogliano emendarsi. Chi l'avrebbe mai creduto, se non l'insegnasse la divina scrittura e la fede, che tutti indistintamente possano e debbano sperare di essere un giorno ammessi al pieno e pacifico possesso di quel bene infinito, di quella felicità e gloria che supera ogni desiderio e che non avrà mai più fine? Eppure è così. Tutti, mie dilettissime, tutti noi, lavati dall'acqua del santo Battesimo, dopo questa breve, brevissima vita, dobbiamo sperare di andare a godere Dio eternamente nel cielo. Benedetto dunque l'uomo, esclama il profeta Geremia, che confida nel Signore e di cui il Signore è la sua speranza.

Egli sarà simile ad un albero piantato lungo la sponda di un fiume che, stendendo le sue radici verso le acque, non temerà l'arsura dell'estate, cioè l'inferno. Le sue foglie, cioè i suoi santi desideri, saranno sempre verdi, cioè animati da una viva speranza; non sarà sollecito ed inquieto nel tempo della siccità, cioè della tribolazione e dell'aridità di spirito, né cesserà mai di fare il suo frutto, cioè di operare il bene.

Ho detto che dobbiamo sperare, perché, come nessuno può entrare in cielo senza la fede, così nessuno può entrarvi senza la Speranza.

Come al cristiano è indispensabile la Fede per potersi salvare, così è necessaria la Speranza. S. Paolo infatti, non solamente ha detto, che bisogna credere che vi è un Dio, ma anche che Egli è rimuneratore, vale a dire che da Lui dobbiamo aspettare le eterne ricompense. Guai a coloro, dice lo Spirito Santo nell'Ecclesiastico, che non confidano in Dio; guai a quelli che hanno perduto la fermezza della loro speranza, perché Dio non li proteggerà, e se Dio non li protegge, essi sono perduti in eterno.

Eppure in questa materia della speranza vi è d'ordinario dell'inganno. Tra le anime buone e timorate, ve ne sono poche che non abbiano orrore di tutto ciò che può ferire in qualche modo la fede o anche qualche virtù morale; ma non tutte hanno poi lo stesso orrore intorno a ciò che può offendere e ferire la Speranza. Si sentirebbero agitate da grandissimi scrupoli, se avessero formulato il minimo dubbio contro la Fede, se si fossero volontariamente fermate in qualche pensiero contrario alla castità, ma, per una stravagante indifferenza, non temono affatto, non dirò di indebolire, ma di distruggere quasi la santa Speranza. Abbandonano il loro spirito a mille inquietudini, a continue diffidenze della divina bontà. « Per me - vanno dicendo talvolta - è inutile che speri di salvarmi, non mi posso aspettare altro da Dio che le pene eterne ». Non sapete, o anime spensierate e diffidenti, io vorrei dire a costoro, non sapete che senza la Speranza nessuno si può salvare, come nessuno può salvarsi senza la Fede? Che la Fede senza la Speranza è del tutto inutile, e che non solamente Iddio ci comanda di avere e di nutrire speranza, ma anche di fortificarla e farla crescere in noi. La Santa Chiesa, che è illuminata e guidata dallo Spirito Santo, è tutta sollecita di chiedere a Dio non solamente l'accrescimento della fede e della carità, ma anche della Speranza, perché il dover sperare nella divina misericordia non è un consiglio, ma è un precetto. Quel Dio che vuole che crediamo in Lui e ci comanda di amarlo con tutto il cuore, ci comanda ancora di avere in Lui una grande fiducia: sperate in Domino. Infatti, noi, vediamo che Gesù Cristo, divino Maestro, aveva somma premura di allontanare dal cuore dei suoi discepoli ogni diffidenza, stabilendovi una viva speranza. « Non si turbi, diceva loro, il vostro cuore. Credete in Dio e credete in me. Voi sarete oppressi nel mondo da molte e diverse sciagure, ma confidate, Io ho vinto il mondo ». Questa dottrina uscita dalla bocca del Salvatore era quella che non cessavano mai gli Apostoli di inculcare ai primi fedeli, animandoli a mettere nelle mani di Dio ogni loro agitazione ed affanno, ritenendo per certo che Egli ha cura di noi, che è fedele nelle sue promesse e che non permette mai che noi siamo tentati sopra le nostre forze; che, anzi, farà sì che la tentazione ci torni a vantaggio, poiché Egli è potente e può fare in noi molto più di quello che noi gli domandiamo e pensiamo.

E' vero che vi furono nei tempi passati dei falsi mistici, i quali non ritenevano virtù il servire Dio per la speranza della eterna ricompensa, e dicevano cattiva l'intenzione di chi ama Dio, perché gli dia la vita eterna, ma essi furono in grande inganno e le loro dottrine furono condannate e perseguitate dalla Chiesa. E con ragione: poiché, se bramare l'eterna beatitudine fosse cosa non buona; se fosse vizioso operare per conseguire la gloria del Paradiso, Iddio infinitamente buono e sapientissimo, non l'avrebbe mai proposta come ricompensa e premio ai fedeli suoi servi.

Vi furono anche dei falsi spirituali, che sotto pretesto di innalzare le anime ad una perfezione più sublime, le volevano staccate da ogni desiderio di vita eterna e da ogni speranza di celeste beatitudine; ma anche questi caddero in grande errore, poiché è fal-sissimo che la perfezione cristiana sia impedita dalla speranza della gloria del cielo. Perfetto, certamente, era l'apostolo S. Paolo quando, vinto dalla violenza del divino amore, bramava sciogliersi dal corpo per unirsi con Cristo in Paradiso.

Perfetta era una S. Teresa, un S. Francesco, un S. Agostino e tanti altri grandi santi; eppure tutti questi, principalmente nel fiore della loro vita, come cervi assetati che anelano alle fonti delle acque, erano portati dai desideri più veementi al godimento del loro Signore.

La carità perfetta non deprime i moti della Speranza, anzi maggiormente li stimola, essendo proprietà dell'amore unire l'amante con l'amato, almeno con i desideri se non può sempre col fatto.

Tutti, dunque, dobbiamo avere grande fiducia nel Signore, dobbiamo sperare: Iddio non è ingiusto, né si dimentica delle opere nostre e, se noi persevereremo fino alla fine nel suo santo servizio, ci darà, un giorno sicuramente, quella gloria che ci ha promesso nell'altra vita.

« Questa è quella corona di giustizia, dice l'apo stolo S. Paolo, che, dopo il corso e il combattimento della vita presente, sta preparata per noi, e che Cristo giudice darà non solo a me, ma, anche a tutti quelli che attendono la sua venuta. Questa speranza in Dio è necessaria a tutti per necessità di precetto: manifestata in più parti della divina Scrittura ». « Sperate nel Signore - dice il reale salmista -: sperate in quella grazia che vi si offre da Dio ». « Comanda ai ricchi, soggiunge San Paolo al suo Timoteo, che non mettano la loro speranza nelle false ricchezze ma nel Dio vivo ».

Supposto, dunque, l'obbligo che tutti abbiamo di sperare nella divina bontà e misericordia, quando è, direte voi, che siamo noi tenuti ad esercitarci in atti di cristiana speranza? Il precetto della speranza obbliga, come gli altri precetti, per sé e per le circostanze. Per sé: ogni cristiano è tenuto a fare atti di speranza, quando è arrivato all'uso perfetto di ragione, vale a dire, quando, dopo essergli stata proposta, conosce quella eterna beatitudine a cui siamo tutti destinati.

Allora deve tendere ad essa come a suo ultimo fine e condurre una vita tale da poterla conseguire. Secondariamente il cristiano è tenuto a fare atti di speranza, quando si trovasse in tempo di disperazione, perché quello stesso precetto che obbliga a sperare in Dio, obbliga ugualmente a non disperare mai di Lui. In terzo luogo si devono fare atti di speranza in pericolo di morte, perché allora più che mai urgono i precetti che riguardano Dio immediatamente. E finalmente, si devono fare atti di speranza di quando in quando, nel corso della vita, affinché l'uomo sia ben disposto a fare il bene e a fuggire il male.

Per le circostanze poi, questo precetto obbliga, quando si devono praticare quelle virtù che non si possono esercitare senza gli atti di speranza, come l'orazione e la penitenza. Finalmente, dobbiamo fare atti di speranza ogni qualvolta insorge una così grave tentazione, che non può superarsi senza rinforzare l'animo con un atto di speranza. In tutti questi casi l'anima cristiana deve gettarsi nelle braccia amorose del suo Signore e confidare in Lui, sperando, con la sua grazia, che arriveremo un dì a goderlo lassù nella gloria del cielo.

Ma su che cosa mai, direte voi, dobbiamo noi fondare questa ferma confidenza di ottenere un bene sì grande, come è la gloria del cielo? Comunemente i santi padri e i teologi assegnano a fondamento della nostra speranza i quattro principali motivi: la paternità di Dio, la sua potenza, la sua fedeltà e la sua bontà.

Dobbiamo noi in primo luogo sperare la gloria del cielo, perché Dio è nostro Padre amoroso, quegli che ci ha dato l'essere, che ci ama con un amore infinito; che ha per noi un cuore più tenero e più inclinato a farci del bene di quello che avesse o potesse avere un padre terreno verso i suoi figliuoli. E noi non riposeremo fra le tenerezze di un tanto Padre? « Può forse dimenticarsi una madre del proprio figliuolo e non aver di lui compassione? E quando anche questo potesse succedere, io non mi dimenti cherò di voi, dice Dio, poiché vi porto scolpiti nelle mie mani ».

In secondo luogo dobbiamo sperare con fermezza la vita eterna, perché Dio è onnipotente, può fare ciò che vuole, e nulla può resistere alla sua volontà. Siano pur grandi le nostre infermità e la nostra miseria, Egli può sanarle tutte e le sana in realtà. Siano pure molteplici i nostri nemici; siano pur forti ed astuti i demoni: Egli da tutti ci può e ci vuole liberare. Non erano in uno stato molto deplorevole gli Ebrei là nell'Egitto, oppressi sotto la schiavitù di faraone? Eppure Dio li liberò e li condusse nella terra promessa: immagine di quello che Egli fa continuamente per noi.

Il terzo motivo su cui si fonda la nostra speranza, è la fedeltà di Dio. Dobbiamo, cioè, sperare il Paradiso, che Dio ci ha promesso; ed essendo fedelissi-mo nelle sue promesse, se noi vivremo da buoni suoi servi ce lo darà sicuramente. « Restiamo fermi - dice S. Paolo scrivendo agli Ebrei - ed immobili nella professione che abbiamo fatto di sperare, perché Colui che ha promesso è fedele nelle sue promesse ».

Quello però che rende più ferma la nostra speranza è l'infinita bontà e misericordia di Dio.

« Questa - diceva S. Agostino - è tutta la mia speranza, l'unica mia fiducia, quella che mi assicura delle vostre promesse, o mio Dio: una spes mea, misericordia tua ». « Dio è ricco di misericordia, dice l'Apostolo: è Padre della misericordia ». « Della misericordia di Dio - dice Davide - è colma tutta la terra ». E noi non confideremo e non ci abbandoneremo interamente in questa divina misericordia? Non speravamo, per questa, la gloria del Paradiso, la beatitudine eterna? Di vedere un giorno senza velo la faccia del nostro bellissimo Iddio? Di amare a nostro piacere, senza limitazione, quell'infinita bontà e godere eternamente di lei? Non avevamo anche i mezzi necessari a conseguire questo primo oggetto della nostra speranza, quali sono la grazia e gli altri divini aiuti per fare il bene? Lo so, che essendo noi peccatori, siamo indegni della divina misericordia, ma Iddio conosce meglio di noi e sa fin dove arriva la nostra indegnità; con tutto ciò Egli ci comanda di avere sentimenti degni della sua bontà e di cercarlo nella semplicità del cuore.

Speriamo, dunque, fermamente, o mie dilettissime, fiduciose nella bontà e fedeltà di Dio, nella sua potenza e amore di Padre di poter godere la delizia del cielo; e questa ferma speranza sia quella che ci stimoli a soffrire in pace le pene e i travagli di questa misera vita e a fare tutto per amore di Dio. Che non fanno gli uomini quando sono spinti e stimolati dalla speranza di un qualche bene?

La speranza di un buon raccolto è quella che rende all'agricoltore soavi le più dure fatiche. La speranza del guadagno anima il mercante a non temere pericoli e disagi né di terra né di mare. La speranza della vittoria e della preda dà forza al soldato a non lasciarsi atterrire né da rischi né dagli stenti della guerra. Che non deve fare, dunque, il cristiano per la speranza del cielo? Questa speranza è quella che ha spinto ad abbandonare il mondo tante delicate fanciulle e tanti giovanetti gentili per eleggersi come loro porzione, l'asprezza della croce e l'angustia del chiostro, e quivi, per ottenere la gloria certa, fra la povertà e le privazioni, fra la croce ed il cilicio, corrono a gran passi e con fervore sulla via della perfezione. Giobbe non raddolciva i suoi dolori con la speranza di dover vedere il suo Signore? e i santi martiri con quale coraggio soffrivano i più spietati tormenti, animati dalla speranza dei premi eterni? Coraggio dunque, figlie dilettissime; la speranza delle ineffabili ricompense che il Signore tiene preparate nel cielo a quelli che fedelmente lo servono quaggiù e immensamente lo amano, sia pur quella che animi anche noi a piegare la nostra volontà a quella dell'ubbidienza, benché ci sembri un po' dura; a soffrire in pace, senza lagnarsi, quelle parole pungenti; quell'amaro rimprovero, quella sgarbatezza incivile; a vincere quell'accidia che ci predomina così spesso nell'esercizio della virtù: sicure che Iddio saprà contraccambiare assai bene quanto avremo fatto e patito per Lui. Amen.

http://www.immacolatine.it/Manoscritti_vol_2/La_virtu_della_speranza.html

OMELIA DOMENICA XVII ANNO C

Il foglietto domenicale nell’introduzione ha intitolato questa domenica come la domenica della preghiera cristiana. Ma si parla della preghiera autentica e sincera, la preghiera che nasce dal cuore e non dalle labbra o recitata per adempiere un precetto,ma la preghiera che nasce dalla fede. Le letture ci interrogano: se davvero siamo uomini di fede che credono che tutto è possibile a chi crede e che niente è impossibile a chi prega con fede autentica e sincera, se siamo uomini che pregano poco e male perché si sta spegnendo la luce delle fede , o peggio siamo cristiani con una fede spenta e vuota ,magari solo tradizionale o recitata secondo le circostanze,possiamo anche essere diventati ciechi per le cose di Dio e quindi indifferenti alla preghiera, incapaci di sostare in preghiera, dubbiosi costantemente della validità e della forza della preghiera. In ogni caso non possiamo che dire: Signore fa che io veda, e inginocchiandoci provare a pregare e dire: Signore aumenta la mia fede.

La fede è un incontro personale con il Dio vivente, non con un Dio astratto, è l’incontro vitale con Dio che è Padre e Provvidenza, che ci ama e ci protegge non solo quando tutto è calmo, sereno e tranquillo, ma anche e specialmente quando viene il temporale e il mare è in burrasca. E’ un Dio che ci ama, più di quanto facciamo noi con noi stessi.
Ai discepoli che hanno fede Gesù insegna una preghiera, la preghiera del Padre nostro e racconta la parabola dell’amico insistente nel chiedere.

La prima lettura è un racconto tratto dalla Genesi sulla potenza della preghiera. Non è la quantità di preghiere che conta davanti a Dio, non è il moltiplicare le preghiere che rende efficace la preghiera, ma è la fede che è sottintesa che ha unpotere,il potere di salvare Sodoma e Gomorra, o il potere di spostare una montagna e di realizzare l’impossibile e il miracolo. Si ratta sempre di una preghiera che nace dal cuore, che nasce dalla vita, non si tratta di una preghiera ragionata , non si tratta di una preghiera per ottenere vantaggi personali , ma abbiamo un esempio di preghiera con Abramo che, come un sacerdote offre a Dio la sua preghiera per la salvezza delle città di Sodoma e Gomorra. Ma il male e la malvagità degli abitanti di queste due città sono così grandi che non sono sufficienti neppure le preghiere di dieci persone giuste.
Perché la preghiera del giusto può compiere l’impossibile?
La risposta è una risposta di fede: Dio è infinito e Onnipotente e l’uomo deve accettare la sua finitudine, la sua piccolezza, il suo non comprendere, l’uomo deve accettare i suoi limiti” fin qui giungerai e non oltre..”deve allora confidare, deve limitarsi a dire con il cuore: Dio Padre, che sei padre di tutti noi, aiutaci compiere la tua volontà.

Ma dobbiamo anche ammettere che la preghiera non fa parte del nostro vivere quotidiano, la preghiera non fa parte del nostro agire naturale di tutti i giorni, come invece succede per altre cose.
La preghiera per molti non è più un continuo abbandono tra le braccia di una Padre infinitamente buono e misericordioso. San Paolo parla di una preghiera incessante,persino nel sonno, la parola del vangelo di oggi parla dell’amico insistente che chiede e poi ottiene.
Una preghiera fatta bene,che parte dal profondo del cuore e si esprime in parole,in giaculatorie,in sussurri e anche nel pianto e nella esultanza.
Ascoltiamo a questo proposito cosa dice l’apostolo Giacomo”chiedete e non ottenete perché chiedete male”. Si chiede male perche senza convinzione, perché solo con pretese, perche con poca fede”.

Autentica fede significa credere senza ombra di dubbio, credere fermamente che in Lui c’è la vita e non la morte, che stare con Gesù si è nella via,nella verità e nella vita,che Gesù essendo nostro fratello in umanità e nostro Padre Dio non può non ascoltare la preghiera dei suoi figli inginocchiati che lo invocano con tutto il cuore.

Ricordiamoci che il Signore è presente in noi, opera in noi , ma è anche il Signore nascosto e che si manifesta all’uomo credente e più aumenta la fede e maggiore diventa la percezione del nostro essere ,vivere e operare in Lui.
Nei nostri tempi si fa fatica talvolta non solo a fare la preghiera di adorazione,di lode,di ringraziamento,ma si fatica anche a chiedere, si ha l’impressione che inginocchiarsi significhi arrendersi,poi un segno di croce o di fede in luoghi pubblici sembra essere un segno religioso fuori tempo , perché in un mondo secolarizzato la preghiera è confinata alla chiesa o al privato.
Domandiamoci quindi non quanto tempo dedichiamo alla preghiera, ma chiediamoci se preghiamo sinceramente con il cuore,con spontaneità,in ogni momento anche mentre lavoro offrendo al Signore i pensieri, i lavori e le opere.

Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo

«Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo». Questo è il tema del Convegno Ecclesiale che in programma a Verona dal 16 al 20 ottobre 2006. È il quarto convegno della Chiesa italiana, dopo quello di Roma del 1976, di Loreto del 1985 e di Palermo del 1995. Nel Convegno Nazionale, che ricorre circa ogni dieci anni, la Chiesa vuole far convenire tutti i credenti, in particolare i laici, a interrogarsi sulle scelte cristiane e sull’impegno nel mondo per l’epoca presente. L’argomento per il Convegno di Verona ha cercato una felice sintesi tra il tema della speranza e la considerazione del laico come testimone. Il punto di sintesi è avvenuto attorno alla speranza “cristiana”, che ha la sua figura personale in Gesù Risorto.

La scelta del tema sta in continuità con il cammino precedente della Chiesa italiana, ma vuole anche introdurre un motivo di novità. La continuità si esprime nel riprendere il percorso delle comunità cristiane d’Italia, concentrato nei decenni precedenti sul rapporto Vangelo-fede e Vangelo-carità. Il tema della speranza non intende solo completare la triade cristiana, ma mettere a fuoco l’aspetto “escatologico” del Vangelo, cioè l’elemento per cui il Vangelo pur essendo nel mondo e per il mondo, non è tuttavia del mondo.

Il motivo di novità va però precisato: la speranza che il credente attesta non è semplicemente l’aspetto di futuro della vita umana, il fatto che le realizzazioni presenti hanno sempre un “altro” e un “oltre” da attendere e da sperare. L’accento cristiano è che la speranza ha il volto di Gesù risorto, è una persona, è l’esperienza sconvolgente di trasformazione e di trasfigurazione che la risurrezione di Gesù semina nel grembo della storia.

Nel Convegno di Verona questo è collegato con il tema della testimonianza del credente. La risurrezione è accessibile solo attraverso la testimonianza dei primi credenti e può essere compresa anche oggi solo nella novità di vita, di visione culturale e di pratica personale e sociale che i credenti sanno offrire al mondo. Allora a tema non è tanto il laico nella sua differenza dalle altre vocazioni ecclesiali, ma la figura del testimone e del racconto che egli è capace di narrare e di suscitare di nuovo nel tempo attuale. Il credente come testimone di speranza: questo è lo specifico del Convegno di Verona! L’enfasi cade su ciò che unifica i credenti prima di ciò che li distingue, perché siano tutti testimoni nella vicenda stupenda e drammatica di questo inizio millennio.

La “traccia di riflessione”, preparata per il Convegno di Verona, ha offerto alcune scansioni che declinano l’argomento: il Risorto come sorgente della speranza di tutti e per tutti; il testimone che può e deve dire in carne e ossa la speranza del Risorto; il racconto della testimonianza con le sue dinamiche nel tempo presente; e, infine, il tema dell’“esercizio della speranza”, cioè dell’agire storico con cui i credenti abitano gli spazi della vita per seminarvi germogli di speranza. Questi spazi della vita sono articolati nei cinque ambiti (vita affettiva, lavoro e festa, la fragilità della vita umana, le forme della trasmissione e comunicazione, la cittadinanza) sui quali i partecipanti all’evento della Chiesa italiana dovranno misurarsi.

Per questo il tema del Convegno di Verona è orchestrato sul canovaccio dalla Prima lettera di Pietro, una lettera affascinante che ci dona un’immagine dei cristiani delle origini nella struggente condizione di “stranieri e pellegrini”, che “rendono ragione della loro speranza”. Rendere ragione non è solo un atto della carità intellettuale, ma è un esercizio storico, un compito e un rischio della libertà. Ormai alla porte dell’evento ecclesiale dobbiamo favorire questo esercizio, perché trovi nel momento alto della celebrazione del Convegno di Verona il suo punto di incontro e di scambio. Si aprono tre piste di ricerca che fanno da sfondo al lavoro di Verona.

La prima pista di ricerca invita a ripensare il primato dell’evangelizzazione nella prospettiva della speranza cristiana. La speranza cristiana non è solo l’attesa di futuro, ma conduce a fissare lo sguardo su Gesù Risorto, sorgente della testimonianza. Questo è il dono più grande che i cristiani possono dare al mondo. L’offuscamento della coscienza di fede, con al centro il Crocifisso risorto, paralizza le forme della comunicazione del Vangelo oggi. La difficoltà di trasmissione non sta tanto nella mancanza di adeguati linguaggi, ma la parola cristiana si rinnova quando si alimenta a un incontro vivo con il Risorto che è esperienza di conversione, di missione e di relazione per la chiesa e il credente. Per comunicare il Vangelo è necessario continuamente vivere del e nel Vangelo della risurrezione.

All’inizio del terzo millennio la sfida cruciale consiste nel mettere in luce il tratto “escatologico” della fede cristiana. Esso non riguarda solo l’aldilà, ma la speranza con cui vivere l’oggi. In un tempo ripiegato sull’immediato, i credenti sanno che per vivere bene il presente non bisogna perdere la bussola della speranza. Essi hanno – come sottolinea di continuo Papa Benedetto – una visione positiva della vita, un grande sogno dell’amore tra uomo e donna, un’immagine alta della vocazione, un’idea forte della convivenza sociale, non solo perché sono ingenuamente ottimisti, ma perché sanno e vivono il fatto che il Risorto è il Signore della storia.

Occorre, dunque, che i cristiani mostrino il potere trasformante della “speranza viva” del Risorto sull’immagine e la concezione della persona, l’inizio e il termine dell’esistenza, la cura delle relazioni quotidiane, la qualità del rapporto sociale, la sollecitudine verso il bisognoso, i modi della cittadinanza e della legalità, le forme della convivenza tra le culture e i popoli. In un parola, si tratta di mostrare che il Vangelo della risurrezione di Gesù non riguarda solo il destino futuro della persona e del mondo, ma la novità con cui si vive il presente, come “pellegrini e stranieri” che hanno la mente lucida e il cuore libero per dare un originale contributo alla costruzione della città e del mondo attuale.

La seconda pista ci presenta l’obiettivo più specifico del Convegno di Verona. La Chiesa italiana ha imparato che il primato dell’evangelizzazione si trasmette nella Chiesa come testimonianza. Allora la testimonianza è il nome per dire che la Chiesa può comunicare il Risorto agli uomini solo nella sinfonia di tutte le vocazioni cristiane. Il Convegno dovrà, perciò, interrogarsi coraggiosamente non tanto sul posto dei laici nella Chiesa, ma sui modi con cui tutte le vocazioni e le missioni della Chiesa costruiscono la comunità credente come segno vivo del Vangelo per il mondo.

Non si tratta di pensare a una faticosa distribuzione dei compiti o una sterile rivincita dei ruoli tra pastori e laici, tra religiosi e impegnati nel mondo. La cosa necessaria è la cura cordiale e amorevole della qualità della testimonianza cristiana, del valore della radice battesimale, del cammino con cui gli uomini e le donne, le famiglie, i ragazzi, gli adolescenti, i giovani e gli anziani danno futuro alla vita e costruiscono storie di fraternità evangelica.

I grandi temi pastorali della Chiesa italiana proposti in questa prima parte del decennio (il primo annuncio della fede, l’iniziazione cristiana, il volto della parrocchia, la domenica) devono trovare nel solco della testimonianza il terreno di una nuova nascita della vita ecclesiale e dell’impegno nel mondo.

Ma non sarà possibile fare questo che a due condizioni. La prima è che la Chiesa – soprattutto la Chiesa locale e la parrocchia – sia essa stessa uno spazio della comunione sinfonica e cattolica, dove tutti sono soggetti e responsabili della missione. La seconda è che nella Chiesa si apra una stagione di fiducia per i laici, le famiglie, i giovani, le persone che cercano nelle comunità cristiane un incontro di senso prima che un luogo di impegno. Non sarà possibile costruire la comunità credente come luogo della testimonianza se essa non diventerà la dimora dove tutti trovano una casa per camminare e per narrare racconti di speranza.

Di qui la terza pista che il Convegno di Verona propone ai cristiani d’Italia: la testimonianza come “esercizio del cristianesimo”. Che il cristianesimo sia una pratica appare evidente a tutti, e anche la dottrina e i valori morali cristiani devono custodire la novità della vita cristiana, capace di animare le forme della vita umana. Se non appare evidente anzitutto questo, che essere cristiani è una “via” e una “vita” nuova, è difficile rendere ragione della speranza dell’“uomo nuovo” e della “nuova creatura”, che è la tessera del cristiano nel mondo.

Il testimone e la Chiesa, allora, potranno avventurarsi ad “esercitare” la speranza negli spazi della vita, solo abbeverandosi alla sorgente della risurrezione e abitando la chiesa come una dimora che fa crescere e fa vivere meglio. È molto importante intendere l’esercizio della speranza non semplicemente come un “mettere in pratica” alcuni valori presupposti e che sono semplicemente da realizzare nell’impegno del mondo.

La testimonianza non ha prima di tutto la forma dell’impegno per gli altri, ma quella di un “esercizio del cristianesimo”, con cui si entra negli spazi della vita umana, messi a tema per il Convegno di Verona (la vita affettiva, il lavoro e la festa, i modi della trasmissione e della comunicazione, la fragilità della vita umana, la cittadinanza), per trasformarli e trasfigurarli, e così farli diventare attraenti per tutti gli uomini.

La Chiesa e il credente abitano questi mondi, ne assumono i linguaggi e le forme della vita, per purificarli e dischiuderli a dire il Vangelo della speranza nelle esperienze della vita odierna. Il credente non tratta l’esperienza del mondo semplicemente come il teatro del proprio agire, ma sa che può essere lievito e luce solo entrando in gioco con la libertà degli altri, degli uomini e delle donne di oggi. Quest’opera esige il discernimento concreto con cui viviamo la vita umana alla luce del Vangelo. Per questo non bisogna pensare alla testimonianza anzitutto come un impegno, ma coma la vita ordinaria stessa, capace di realizzare quello che san Paolo chiama il “culto spirituale”, cioè la vita nella carità, la comunione nell’amore con Dio e tra di noi. Come ha ben detto il Papa nella sua prima enciclica: «Il programma del cristiano – il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù – è “un cuore che vede”» (n. 31,b). Per fare bisogna vedere e per vedere bisogna agire: questo è l’esercizio del cristianesimo!

In questo contesto la libertà dei credenti diventa il crocevia di incontri, e talvolta anche di discernimenti critici, che portano a comunicare la speranza cristiana dentro la figura incerta e, tuttavia, aperta del mondo attuale. Questo “esercizio” è l’obiettivo pratico del Convegno di Verona. È una grande impresa immaginare il cristiano e la Chiesa, con nel cuore la speranza del Risorto, dentro gli ambiti della vita umana, perché nel tempo postmoderno diventino ancora luoghi di esperienza vitale e spazi per sognare il futuro. Non possiamo cedere alla rasse-gnazione. Sarebbe una cattiva testimonianza: in questo modo diremmo che crediamo più a noi stessi che al Signore della vita.

Questa coscienza appassionata decreterà la fecondità dell’assise ecclesiale di Verona. Basterà che l’evento del Convegno pratichi in modo emblematico questo “esercizio” nella fiducia e nell’ascolto ai racconti di speranza che gli altri porteranno con sé. Per scambiarli in quei giorni di intensi incontri e poi irradiarli nei normali percorsi della vita quotidiana nel cammino che verrà dopo Verona.

http://www.dongnocchi.it/html/cstamp06/cs055.htm

LA GIOIA DEL CREDENTE E' LA SPERANZA

Dove sta andando la teologia contemporanea? Che senso ha, oggi, alla fine del secondo millennio, portare avanti una riflessione teologica che possa essere all'altezza dell'epoca che stiamo vivendo e, contemporaneamente, capace di farci uscire da quel cinismo esasperato che sembra essere la nota caratteristica di fine secolo? [1] Questa è la domanda che nasce spontaneamente ascoltando uno dei 'grandi vecchi' della teologia di questo secolo - padre Edward Schillebeeckx (cfr. scheda bio-bibliogra­fica). Ha fatto parlare molto di sè in questi anni - a partire dalla pubblicazione nel 1966 del «Nuovo catechismo olandese» fino ad arrivare ai vari processi in cui è incorso a Roma per chiarire alcuni punti dogmatici contro­versi della sua ricerca teologica. E' venuto in questi giorni, paradossalmente qui a Roma, a presentare due testi appena pubblicati in italiano: Umanità. La storia di Dio, uscito nel 1989 in Olanda e tradotto nel 1992 dalla Queriniana nella Biblioteca di teologia contemporanea (n. 72); e Sono un teologo felice. Colloqui con Francesco Strazzari - il risultato di un'intervista tenuta per alcuni giorni a Nimega (Paesi Bassi), edita dalle edizioni Dehoniane di Bologna.

Padre Schillebeeckx, dopo aver lungamente riflettuto alla fine degli anni '60 sull'impatto e sugli effetti della secolarizzazione nel mondo contemporaneo e nella co­scienza credente, ha fatto della costante correlazione tra problematicità dell­'esistenza umana e fede cristiana il pungolo della sua ricerca teologica [2] . La teologia cristiana per lui non è semplicemente uno spettro di riflessioni o di analisi 'dedotte' dal patrimonio della fede, ma si dà solo come ricerca tramite un costante ed insonne dialogo tra il depositum fidei e i problemi e le angosce dell'uomo contemporaneo - secondo la lezione fatta valere dal Concilio Vaticano II.

In questo senso la sua ricerca teologica è stata giustamente interpretata come ermeneuti­ca dell'esperienza cristiana; essa, non rinun­cia all'umano nè, tanto meno, fa di questo un momento dialetticamente già-da-sempre superato dalla rivelazione cri­stiana ma ritrova nei vari progetti antropologici di libe­razione elaborati con mano autonoma dall'uomo una «tematizzazione di un'esperienza uni­versale di ricerca di senso che rimanda ad un oriz­zonte di pienezza di umanità e di integrità umana (il souhaitable humanine secondo la for­mulazione di Ricoeur)» [3] . Una volta accettata positivamente la secolarizzazione come l'esperienza dell'uomo (post)-moderno che vive in un «mondo diventato adulto» (Bonhoeffer) e per il quale il Van­gelo deve essere letto 'mondanamente' [4] , Schille­beeckx ha comiciato ad interrogarsi sul posto che la Chiesa occupa in questa nuova situazione, spe­cialmente là dove il mondo risulta «pieno di sensi e di non sensi, di fortuna e di svenu­tura» e sul limitare del ven­tunesimo secolo è scos­so da nuovi olocausti» [5] . E' in tale mu­tato panorama - ha affermato Schillebeeckx - che la chiesa deve riflettere sul volto che vuole assumere per conti­nuare ad essere un segno credibile di speranza: «In tale situa­zione cri­tica ed ermeneutica, quale è il compito della chiesa, delle nostre comunità cri­stiane? Fino a che punto la chiesa stessa vive l'incertezza, la precarietà in una situazione nella quale lei pure si trova im­mersa?». La teologia di questo 'grande vecchio', profondamente «contestuale» [6] , sembra oggi at­tardarsi sulle "cose penultime", preoccupata di intendere il volto dell'epoca attuale, perchè sulle "cose ultime" si de­ve restare in silenzio, «devono re­stare non dette». Per lui, l'esperienza dell'uomo d'oggi va radicalmente indagata - secondo il motto della fenomenolo­gia: «ritorno alle cose stesse» !!! -, va osservata con occhio vigi­le, aperto, appas­sionato. Al di là dei pregiudizi e degli schemi di comodo, essa pare presen­tarsi brulicante «di contraddizioni e sofferenze», disordi­nata e qui l'uomo vive facendo l'esperienza origi­naria dell'indignazione. Essa non è riconducibile né al pessimismo dato da una situazione irrisolvibile né al disfattismo più cinico ma si fonda su una sorta di intui­zione che ciascuno possiede e che si esprime come «veto irresistibile degli uomini contro l'inumano nel mondo»

Mediante questa indignazione, all'uomo si manifesta una «seconda dimensione», una «prospettiva positiva» da cui guardare l'esistenza, il mondo, la storia: «questo rifiuto umano della di­sumanità rivela inoltre un'apertura a una situazione nuova che avrà, essa sì, diritto al nostro "sì" di approvazione. (...) Questa dimensione rivela l'aspettativa positiva che il nostro mondo sia "migliorabile", (...) una fede nell'umanità dell'uomo». Anche se il senso globale della storia sembra sfuggire all'uomo, anche se «questa storia può perdurare priva di senso ultimo» - questa è l'esperienza fattuale di ogni giorno - proprio l'indignazione, nel suo esserci qui ed ora, «palesa un non-compiuto, un non-esaurito, un vuoto in attesa di pienezza, e dunque un "sì aperto", tanto incrollabile quanto il "no" o il veto, anzi ancor più, poichè tale "sì aperto" fonda il "no" all'inumanità e lo rende possibile» [7] .

Quest'esperienza di una speranza piantata nel cuore dell'uomo, di una speranza capace di andare al di là di ogni «sofferenza manifesta o segreta» - afferma Schillebeeckx - è pro­fondamente umana, comune al credente e all'agnostico e, confermata dalla storia delle re­ligioni dell'umanità, è il luogo su cui basare la solidarietà «di tutti con tutti» in vista di una distruzione di quel di­sumano che pare la realtà. «Chi crede in Dio - dice Schillebeeckx - conferisce a questa esperienza a due facce un contenuto di tipo religioso. In tal modo il 'Sì aperto' viene ad assumere un più preciso orientamento e rilievo. La sua origine non è vista tanto, od almeno non è vista direttamente, nella trascendenza del 'Divino' (ineffabile e anonimo, inesprimibile in parole), quanto piuttosto (se non altro per i cristiani) nel volto umano di questa Trascendenza, così come ci è apparsa nell'uomo Gesù, che noi confes­siamo come Cristo e Figlio di Dio» [8] . Ma che cos'è questa esperienza, almeno da un punto di vista umano, se non il sintomo del bisogno di cambiamento «radicale e definitivo»? E, da un punto di vista cristiano, che cos'è questa «esperienza contraddittoria fondamentale e il connesso rifiuto dell'ingiustizia, al pari della prospettiva aperta su qualcosa di migliore» se non il rimando a quella storia della salvezza in cui, «benchè sempre attraverso la media­zione degli uomini e di altri fattori terreni», si compie la storia della liberazione e della salvezza dell'uomo? In questo senso, non a caso, Schillebeeckx ha affermato, riprendendo ciò che un ragazzo ebbe a dirgli un giorno, che «gli esseri umani sono le parole di cui Dio si serve per raccontare la sua storia».

Quello che la chiesa oggi è chiamata ad annunciare, secondo padre Schillebeeckx, è una salvezza che riguarda 'tutto l'uomo', spirito, anima e corpo, in quell'unitarietà che caratterizza l'antropologia cristiana. «Quattro grandi simboli della tradizione ebraica e cristiana ci suggeriscono la direzione in cui i cristiani devono cercare per intuire quanto Dio sogna per l'avvenire dell'umanità (corsivo nostro), affinchè uomo e donna vivano finalmente felici in mezzo alle altre creature»: il simbolo del Regno di Dio; la risurrezione della carne; la metafora biblica dei nuovi cieli e della nuova terra; l'unicità della figura di Gesù Cristo. Tali metafore traducono il fondamento meta-etico dell'impegno etico dei cristiani nel mondo. Proprio perchè «parlare di Dio non riceve il suo senso pieno se non nel quadro della prassi del regno di Dio» [9] , la chiesa è chiamata a diventare testimone della storia di Dio, non comprimendosi la salvezza in un regno meramente spirituale o in un futuro solo celeste, ma aprendosi e rivolgendosi agli altri: all'umanità che vive nel mondo [10] .


http://www.orarel.com/pensieri/coccolini/gioia_credente2.htm

lunedì 29 agosto 2011

BERNARDETTA E LA SOFFERENZA E LA SPERANZA

Rm 5,1-5
1 Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo; 2 per suo mezzo abbiamo anche ottenuto, mediante la fede, di accedere a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio. 3 E non soltanto questo: noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata 4 e la virtù provata la speranza. 5 La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
Nei capitoli precedenti della Lettera ai Romani, in particolare in Rom 3, 21-31, Paolo mostra come tutti gli uomini, presentati nella dualità di “giudei e pagani”, si trovino in uno stato di ingiustizia e di peccato, descrivendo anche come avvenga il recupero della dignità di figli di Dio, detto in termini più tecnici, la nostra “giustificazione ”: il passaggio, cioè, dallo stato di peccato allo stato di grazia, stato appunto di giustizia. Tutto è dovuto all’iniziativa gratuita di Dio che agisce mediante il suo figlio Gesù Cristo: Egli è “morto per i nostri peccati e risorto per la nostra giustificazione” (4, 25).
Tuttavia, la salvezza operata da Gesù rimane chiusa in se stessa, se non è accolta dal credente; per questo, ogni fedele deve partecipare a quest'opera di Dio e, in certo senso, farla propria, accogliendola con la fede: ecco perché i termini fede/credere ricorrono con insistenza nei cc. 1-4; la parola “fede” compare poi ancora due volte, in 5,1 e 5,2, e non più fino alla fine del cap. 9. Paolo, infatti, sta avviando il suo discorso sul compimento di salvezza partendo proprio dalla certezza della giustificazione presente: essa dà fondamento alla speranza della vita eterna (5,1; 8,81-34). Si afferma poi che le tribolazioni e la speranza sono strettamente legate (5,3-4; 8,35-37) e che la fiducia nella salvezza finale poggia sull’amore di Dio manifestato nella morte di Cristo (5,8; 8,35-39) e riversato dallo Spirito nel cuore dei cristiani (5,5). Quanto affermato ci fa capire che 5,1-5 costituisce la prima parte di uno sviluppo unitario di pensiero che include anche 5,6-11.
a) fondamento della vita eterna (vv. 1-2)
v. 1 Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore,
v. 2 mediante il quale abbiamo anche avuto, per la fede, l'accesso a questa grazia nella quale stiamo; e ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio;
v. 1 Giustificati dunque per fede: è un’espressione concisa e lapidaria che ha la funzione di riassumere in modo sintetico ed incisivo il centro dell’unità 4,1-25 e soprattutto di 3,21-31. Tuttavia mentre nelle suddette divisioni il punto di arrivo è proprio l’idea di giustificazione, in 5,1 essa costituisce il punto di partenza per un ulteriore sviluppo teologico. La congiunzione “dunque” ha in questo caso una forza argomentativa e non solo
conclusiva. Mentre, infatti, in 3,21-26 Cristo viene messo in relazione con l’opera di giustificazione, ora in 5,1 essa è strettamente collegata con i suoi frutti: “ abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore ”'. L’opera di Cristo risulta alla fine da una triplice esplicitazione: “dono della pace”, “accesso alla grazia nella quale si muovono i giustificati”, e “vanto nella speranza della gloria di Dio”. All’azione passata di Dio (giustificati) corrisponde per il credente un presente salvifico, l’aver pace con Dio, con cui si descrive la stessa pace escatologica che in 2,10 veniva promessa per il “giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio” (2,5) per coloro che operano il bene. La pace è “la felicità perfetta” e al tempo stesso “il dono di Dio” per eccellenza, tanto che Rom 14, 7 definirà la condizione cristiana: “giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo”. Si tratta infatti, della pace con Dio, quella che Paolo al versetto successivo chiama una grazia, cioè un favore assolutamente gratuito. Il Signore Gesù Cristo, ci ha ottenuto di aver accesso, con la fede, a questa grazia nella quale siamo integrati.
In 5,1 l’apostolo vuole presentare l’intero processo salvifico che accompagna ogni credente, processo che parte dal passato (giustificati), attraversa il presente (abbiamo, abbiamo avuto, stiamo) e tende al futuro (nella speranza della gloria di Dio). L’agire di Dio è, insomma, dinamico e progressivo per condurci alla pienezza esperienziale del suo amore.
v. 2 mediante il quale abbiamo anche avuto, per la fede, l'accesso a questa grazia nella quale stiamo
La fede è connessa alla giustificazione e il ruolo di Cristo è quello che regge tutta la vita cristiana: così la formula “per nostro Signore Gesù Cristo”, utilizzata già all'inizio della lettera (Rom 1, 5) e richiamata alla fine del capitolo precedente (4, 25), scandirà per così dire, come un ritornello, ciascuno degli sviluppi del proseguo della lettera, ritornando anche alla fine dei cc. 5, 6, 7, 8. Cristo è la porta di comunione con il Padre. L’espressione “abbiamo accesso” è al presente per indicare che Cristo ci introduce non una volta sola, ma in continuazione in una dinamica di relazione che si rivela come relazione filiale nei confronti di Dio Padre. Si tratta di un accesso durevole e stabilizzato: possediamo stabilmente “questa grazia nella quale stiamo”.
e ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio: non soltanto ci troviamo in uno stato aperto al flusso della « grazia » divina, ma conduciamo un'esistenza sorretta e confortata da un “vanto” da un “gloria” straordinaria: quella di una umanità rinnovata, a tale punto avvicinata a Dio e segnata dalla grazia di Dio, da potere tendere con speranza sicura alla “gloria di Dio” che le è stata riservata. Questa affermazione è il vertice della dignità cristiana promessa da Dio.
Il dono già concesso tende per proprio dinamismo al conseguimento di una perfezione celeste, la quale è detta appunto « gloria di Dio ». Tanta verità è incarnata in esistenze concrete e suscita una speranza commisurata. Tale speranza, a sua volta, coincide con un senso insieme umile e fiducioso di celebrante sicurezza. Paolo non pretende che la speranza cristiana sia un “vanto” psicologicamente avvertito dai singoli fedeli. Egli, però, desidera proporla come un privilegio insito oggettivamente nella novità di un'esistenza segnata da Cristo, cogliendovi una definizione della dignità umana, sorta dalla
grazia di Cristo e confermata dai tesori di potenza e d'amore operanti nel vangelo divino della salvezza.
Va ricordato che questo “vanto”, affermato in un contesto in cui si celebra la grandezza del dono di Dio, non può essere il « gonfiarsi » vano di persone che si ergono autonome al cospetto di Dio, riponendo la loro fiducia in motivi estranei alla verità di Dio. È invece, come si preciserà a conclusione della pericope, un « vantarsi in Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo » (v. 11). Si tratta, quindi, di un « vanto » tipicamente evangelico che può descriversi come un senso di sicurezza gioiosa col quale una umanità nuova, percependosi oggetto e sede dell'amore-potenza di Dio, si riconosce rivestita di ricchezza e dignità e come tale avanza nel cammino terreno della fede. Da una parte, è un “vanto” pieno d'umiltà e di gratitudine, essendo il privilegio di credenti che hanno aderito ed aderiscono tuttora alla verità del vangelo divino della misericordia, ed hanno accolto ed accolgono tuttora il dono gratuito della giustificazione divina; dall'altra parte, è un vanto pieno di sicurezza e di fiducia, essendo come il volto fiero e lieto di una speranza prodigiosa. « Ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio »: è un riconoscere e proclamare, nell'umiltà e nella fiducia, nella verità e nella piena sicurezza, nella fede e nell'entusiasmo ammirato, che si ha il privilegio e la dignità di camminare in novità di vita, tesi al possesso della « gloria di Dio », come al raggiungimento di una compiutezza verso la quale si è personalmente orientati
b) Il vanto di una speranza tribolata (vv. 3-4)
v. 3 non solo, ma ci gloriamo anche nelle afflizioni, sapendo che l'afflizione produce pazienza
v. 4 la pazienza esperienza, e l'esperienza speranza.
I vv. 3-4 mostrano che tanto privilegio e tanta dignità non sono dei concetti teorici, ma esprimono una realtà vissuta nella concretezza quotidiana di un cammino ancora onerato da precarietà terrena.
La “pace con Dio”, “l’accesso” stabile alla “grazia” del vangelo, che diventa motivo di “vanto/gloria” e di speranza che non delude, sono vissuti nondimeno in mezzo alla “tribolazione” come in un suo ambiente terreno caratteristico. Non per questo, però, scade il “vanto” asserito precedentemente: anzi, la tribolazione stessa, per il fatto che rientra nella dinamica di un'esistenza tutta segnata dalla “grazia” e dalla verità del vangelo, si trova a rafforzare i motivi per cui ci è dato di trovare nella “speranza della gloria” un nostro “vanto” fondato e gradito a Dio.
Anzitutto viene presupposto che la tribolazione non è affatto casuale, ma è la condizione prevedibile, anzi in qualche modo necessaria, di chi porta quaggiù nella fedeltà della coerenza il segno di Cristo, di chi è chiamato dalla sua stessa identità battesimale a “partecipare alle sofferenze di Cristo”. Il cammino, dunque, della fede e della speranza, quel rispondere quotidiano al Dio che “chiama al suo regno e alla sua gloria” (1Ts 2, 12), è necessariamente un “aspettare la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo” (1Cor 1, 7) con il coraggio e la saldezza di una “perseveranza” che è come l'alimento e la riprova concreta di un'esistenza cristiana autenticamente vissuta.
Ben sapendo che la tribolazione produce perseveranza, la perseveranza una virtù provata… (v. 3). L'Apostolo affronta il tema della speranza, e lo mette in evidenza contrapponendolo alla tribolazione che, apparentemente, sembrerebbe negare la stessa speranza. Paolo, invece, vede in queste tribolazioni la conferma della medesima, come mostrano sia il valore qualitativo-escatologico di “nelle tribolazioni” (può essere che con esse Paolo abbia voluto indicare la realizzazione dei beni messianici), sia l’argomentazione che Paolo fa seguire in 5,3b-4: essa, partendo da una premessa che si fonda su un sapere religioso, si muove su una stretta linearità deduttiva, descrivendo il dinamismo interno della fede: la tribolazione opera la costanza, questa una virtù provata, la virtù provata la speranza, il cui fondamento (5,5) è lo stesso amore di Dio che trova la sua espressione concreta nel dono dello Spirito, già in possesso del cristiano.
L'esperienza della fede dice che l'autenticità cristiana è coerenza perseverante; dice pure che questa nasce e si sviluppa, per quanto in modo misterioso, nel terreno immancabile e provvidenziale della tribolazione.
L'argomento tuttavia, procede oltre. Il « vanto » cristiano di cui si parla nel v. 3 è lo stesso “vanto” affermato nel v. 2 e, pertanto, è strettamente legato alla “speranza”. Ciò significa che se il credente ha il privilegio di vantarsi “anche nelle tribolazioni”, il motivo ne è che la tribolazione (thlipsis) non soltanto l'interpella come un invito alla perseveranza e come una riprova di autenticità personale, ma è da lui vissuta come un'esperienza caratteristica della sua dignità nuova nella “grazia” di Cristo, in quella “grazia”, cioè, di cui era stato detto che i “giustificati per fede” hanno ottenuto “accesso” stabile (v. 2). Il “vanto” cristiano, senso della propria dignità in Cristo, è costituzionalmente fondato sulla realtà della “grazia” e non può in alcun modo essere motivato da valori, meramente ascetici come, ad esempio, la “perseveranza” e la “virtù provata”, prese in se stesse. Occorre quindi che queste, insieme con la “tribolazione” che ne è il terreno di crescita, siano comprese e vissute nella “grazia” e colte come una testimonianza sia della ricchezza della grazia medesima sia della dignità di un'esistenza misericordiosamente qualificata da Cristo.
Ci vantiamo anche nelle tribolazioni: è tanto il “vanto” che nasce dalla “speranza della gloria” ed è fondato su premesse tali di “grazia” divina, da trovare perfino nelle “tribolazioni” un motivo convincente di gioiosa fiducia nelle divine promesse gloriose. La “tribolazione” è di per sé testimonianza di precarietà, di debolezza e di fragilità. Ma se viene accolta e vissuta nella grazia di Cristo, invece di indurre allo scoraggiamento, può portare un frutto inatteso, rivelatore di quanto ricca di grazia divina sia l'esistenza nuova dei credenti-giustificati. Con la tribolazione, infatti, la loro stessa speranza è rafforzata e ravvivata, e, insieme con la speranza, il vanto stesso è alimentato e confermato, divenendo sicurezza fiduciosa e fiducia gioiosa in modo ancor più convincente. Quella di Paolo sembra una affermazione che sa di follia; l’esperienza, infatti, ci dice che la tribolazione spezza le forze fino a far alzare la voce verso Dio. Ciò che l’Apostolo afferma non è comprensibile secondo una logica umana, ma soltanto alla luce del progetto di redenzione e di salvezza: “là dove è abbondato il peccato (quindi ogni genere di povertà) ha
sovrabbondato la grazia”: fuori della “grazia” la tribolazione diventa solo disgrazia!
Il credente non desidera la tribolazione e ne sente tutto il peso quando è presente, tuttavia non la esclude dalla propria vita, perché accetta la “logica” della grazia, mediante la quale si opera la trasformazione, allora la tribolazione dischiude la perseveranza e questa una virtù provata. Riguardo a questo ultimo termine, il greco usa il vocabolo dokimê, ma forse più che “virtù provata” è meglio tradurre con “discernimento”, “valutazione”. In tal modo si afferma che nei riguardi delle tribolazioni abbiamo una diagnosi in profondità, quella che Paolo fa, per esempio, in 2Cor 12,1-11, quando colloca le tribolazioni nel quadro del mistero pasquale, costituito inscindibilmente dalla croce presente e dalla gloria futura, oggetto tipico della speranza. La pazienza permette un discernimento che la superficialità o l’istantaneità dell’accadimento non riesce a cogliere; siamo dunque rimandati ad una lettura della vita letta alla luce della fede e dello Spirito.
L’insegnamento che Paolo offre in questi versetti apparteneva alla catechesi della chiesa di Antiochia che esortava i fedeli “a stare saldi nella fede, perché è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio” (At 14,22). Tale insegnamento corrisponde anche alla promessa che Gesù aveva fatto ai suoi discepoli: “voi avrete tribolazioni nel mondo, ma abbiate fiducia…” (Gv 16,33). Così, quando la tribolazione si era presentata sul loro cammino - ciò che era regolarmente avvenuto - non avevano potuto lamentarsi di non essere stati avvisati e preparati alla sua venuta. La tribolazione, la sofferenza è la normale esperienza dei credenti, ma per essi diventa opportunità di gioia: “a voi è stata concessa la grazia non solo di credere in Cristo, ma anche di soffrire per lui” (Fil 1,29).
Secondo l’Apostolo quello presente è il tempo contrassegnato dalle sofferenze, anche se esse non hanno nessun confronto con la gloria che si rivelerà in noi (cfr Rom 8,18; 2Cor 4, 17). Solo se condividiamo la logica di amore di Gesù, partecipando cioè alle sue sofferenze, prenderemo parte alla sua gloria e saremo coeredi insieme con Lui (cfr Rom 8,17). Il tema della sofferenza occupa un posto centrale nel pensiero di Paolo: nelle sue lettere ci si imbatte in una multiformità del patire che è sia fisico ed esteriore, sia psicologico ed interiore (1Ts 3, 7; Rom 8, 35; 2Cor 2, 4;1; 6, 4; 12, 10; Fil 1, 17…). Per lo più, la sofferenza, esteriore od interiore che sia, indica la tribolazione subita a motivo di Cristo e della fede, sia da parte dei credenti in genere che dall'Apostolo in prima persona (1Ts 1, 6; 3, 3.7; 2Ts 1, 4-5; 2Cor 1, 4-7; 4, 8-12; 6, 4-5; 7, 5; Fil 1, 12.20.29-30…). Questa «tribolazione», cristiana ed apostolica (ved. le drammatiche testimonianze date in 1 Cor 4, 9-13; 2 Cor 4, 8ss.; 6, 4ss.; 11, 23ss.; 12, 10 … ) è l’esperienza sofferta di una « debolezza » innegabile (2 Cor 4, 7; 11, 30; 12, 7-10) e di un disfacimento che equivale ad un morire quotidiano (2 Cor 4, 11.12.16; cf anche 1 Cor 4, 9; 2 Cor 1, 9), ma Paolo la comprende e la vive alla luce del mistero pasquale, con la fiducia sicura e lieta della speranza (Rom 8, 17.18.35-39; 2 Cor 1, 5; 4, 7-12.16-18; 6, 10; 12, 9-10; Fil 1, 19-20.27-30; 3, 10-11; 4, 13; Col 1, 24…).
v. 5 Ora la speranza non delude, perché l'amore di Dio è stato sparso nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato.
La speranza per Paolo non è una carta bianca sul futuro, piuttosto è simile ad un bozzetto che deve essere sviluppato, ad un disegno che deve essere colorato, il cui progetto lo possiamo vedere realizzato in Cristo, nell’agire del Padre in Lui. Dio è colui che “dà vita a ciò che è morto e chiama all’esistenza le cose che non sono” (Rom 4,17). Il credente vive una realtà germinale in cui sa cogliere la potenza operante dell’amore di Dio, poco prima presentato come giustificazione, pace, accesso alla gloria. Lo sperare, perciò, non è una illusione o una delusione, né è un provare vergogna, come esprime meglio il significato del verbo greco, bensì “un vanto” di certezza che fa tendere alla pienezza della promessa salvifica. Si tratta di sicurezza, di fiducia, di senso della propria dignità nella grazia di Cristo - componenti tutte del predetto “vanto” cristiano. Non resterà confuso chi ha portato lungo il cammino tribolato della fede la speranza di possedere la “gloria di Dio”: anzi, egli ha ragione di “vantarsi” nella speranza che lo sta indirizzando verso la perfezione gloriosa della grazia, nella quale è già stabilito.
Perché l'amore di Dio è stato sparso nei nostri: Paolo fonda la nostra speranza sull'amore stesso con cui Dio ci ama, e di cui abbiamo una prova certa: è lo stesso amore di Dio che trova la sua espressione concreta nel dono dello Spirito, già in possesso del cristiano E’ probabile che qui Paolo si riferisca al momento del battesimo, come stimano alcuni commentatori. Per ricordare poi in concreto che i credenti hanno già il dono dello Spirito, quale certezza dell’amore di Dio, si mette in evidenza come la presenza dello Spirito in noi attesta non solo l’amore di Dio, ma anche il nostro presente salvifico. Infatti, mentre gli uomini erano nell’impotenza e ancor più nella empietà (v. 6 cfr 1,18), proprio allora Cristo è morto per essi, per noi (v. 6). Questa frase sintetica, ripetuta con poca differenza in 8b, vuole dire che con la sua morte Cristo ha liberato gli uomini dall’impotenza e dalla empietà, cioè dal peccato. La prova di amore di Dio è messa ulteriormente in luce con la contrapposizione all’atteggiamento dell’uomo nei confronti del suo simile (cfr v. 7). Quindi la morte di Cristo assicura che la speranza del giustificato vedrà il suo compimento.
Mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato: la speranza, come la fede, ci insegna a distogliere lo sguardo da noi stessi e dai nostri meriti per fissarlo esclusivamente su Dio e sulla sua fedeltà: “ È fedele Iddio, grazie al quale voi siete stati chiamati alla comunione con suo Figlio Gesù Cristo nostro Signore” (1Cor 1,9). Ma come può Paolo affermare l’amore di Dio, che evidentemente è in Dio e non in noi, e che è stato effuso nei nostri cuori dallo Spirito Santo che ci è stato dato? Sono le ultime parole a suggerire la risposta. Il cristiano vive “nello Spirito”. Tutto il cap. 8 avrà questo come tema: il “figlio di Dio” è per definizione colui “che è condotto/animato dallo Spirito di Dio” (Rom 8,14). Per Paolo la guida dello Spirito non è un impulso sporadico, ma un'esperienza abituale del credente, mantiene qui ed ora la vita e la forza nello spirito dei credenti e dà, con la sua presenza in loro, la garanzia di essere amati. Infatti, lo Spirito Santo è l'amore reciproco del Padre e del Figlio, colui nel quale il Padre ama il Figlio e tutti gli uomini. In questo senso, cioè in virtù del dono dello Spirito, l'amore di cui Dio ci ama, abita nel cuore di ogni cristiano. In Rom 8,14-15, passo evidentemente parallelo a Rom 5, 5, l'Apostolo spiegherà che lo
Spirito Santo si unisce al nostro spirito per attestare che siamo figli di Dio, mettendoci sulle labbra la parola con la quale il Figlio si rivolge al Padre: “Abba”. Il fatto che “in Lui” noi possiamo invocare Dio come nostro Padre, testimonia che il Egli ci ama come figli, di più, ci ama come il Figlio unigenito in cui, secondo l'audace espressione di Gal 3, 28, noi formiamo “un solo essere vivente”.
Quindi lo Spirito di Dio porta una testimonianza che dà il proprio consenso allo spirito personale dei cristiani: essi sono figli di Dio. Ma vi è di più: i figli di Dio sono suoi eredi, eredi della gloria appartenente a Cristo per diritto speciale, unico, della quale gloria egli fa partecipi per grazia i suoi, rendendoli perciò coeredi con lui. Coloro che sperimentano in questa vita presente la comunione con le sue sofferenze possono essere sicuri, anche nel futuro, di prendere parte alla sua gloria.

http://www.unitalsi.info/public/web/documenti/bernadette_6.pdf