DON ANTONIO

martedì 25 ottobre 2011

BREVE CORSO DI ANTROPOLOGIA TEOLOGICA – PROF. GIORGIO GOZZELINO


I. PREMESSE
1.1. Identità della antropologia teologica
1.1.1. Vera antropologia: indagine sull’uomo
1.1.2. Antropologia teologica: rivolta alla dimensione ‘salvifica’ specificamente
cristiana (o di comunione trinitaria con Dio Padre per Cristo nello Spirito) dell’uomo, e sviluppata sulla base della rivelazione cristiana (Bibbia nella Tradizione)
1.2. Ripartizioni della antropologia teologica
1.2.1. Loro fondamento: carattere dinamico della struttura umana salvifica, che
comporta un punto di partenza (nativo salvifico), un percorso, un approdo.
1.2.2. Loro scansione: * antropologia teol. I o protologia, concernente il nativo strutturale e il quasi nativo storico;
* antropologia teol. II o trattato sulla grazia e mariologia per la dimensione individuale; ed ecclesiologia o trattato sulla Chiesa (Chiesa dei sacramenti e Chiesa comunione) per la dimensione comunitaria;
* antropologia teol. III, od escatologia.

II. ANTROPOLOGIA I
Ne condensiamo l’insieme sui due fronti:
- della indicazione dei lineamenti della struttura salvifica di partenza dell’uomo,
- e della individuazione delle ragioni del loro esserci.
2.1. LINEAMENTI NATIVI (opera di Dio solo) DELLA STRUTTURA SALVIFICA
UMANA
2.1.1. L’uomo tout court è CREATURA DI DIO. Ossia:
- una realtà totalmente (‘productio ex nihilo’) stabilita sulla dipendenza da Dio (cfr. Gv 15), da cui ha ricevuto e riceve l’essere;
- un soggetto che possiede l’essere non da padrone ma da amministratore (sicché vale l’esaltante principio: sum, ergo diligor, esisto, dunque sono amato).
2.1.2. L’uomo tout court è una creatura PRE-DESTINATA ALLA COMUNIONE TRINITARIA..
Ossia:
- un esistente pienamente ‘sensato’, perché previamente finalizzato da Dio (dato
salvifico nativo) alla comunione più profonda possibile con Lui, quella “filiale trinitaria”, accessibile solo per Cristo;
- un esistente creato in Cristo (cfr. Ef 1,3-12; 1 Cor 8,6; Col 1,15-17), e cioè destinato a partecipare in forza di Gesù (per Cristo) alla sorte finale di Gesù e cioè alla risurrezione-sessione alla destra del Padre (con Cristo, cfr. Gv 14,2-3).
2.1.3. L’uomo tout court è una creatura STRUTTURATA AD IMMAGINE DI DIO TRINITÀ (cf paragone del guanto e della mano). Ossia
- un soggetto in possesso di una conformazione interamente “sim-bolica” (o di unità dei distinti), tanto ad intra (cfr. unità corpo ed anima, dimensioni, facoltà, ecc.) quanto ad extra (cfr. rapporto individuo e individui, individuo e comunità, maschio e femmina, ecc.);
- una realtà costitutivamente definita dalla comunione, o reciprocità, o intersoggettività (donde l’esigenza di porre l’ontologia trinitaria cristiana al posto della ontologia sostanzialista cartesiana).
2.1.4. L’uomo viatore è intrinsecamente STORIA e LIBERTÀ. Ossia:
- un soggetto che viene all’esistenza “in codice”, delineato e non ancora compiuto, in possesso di una identità di fondo (‘essenza’) che precede progettualmente l’esistenza e in essa nel corso del tempo si completa (giustificazione della antropologia II e III); per cui, non ha semplicemente una storia bensì è la propria storia;
- un soggetto interamente coinvolto da Dio nel processo di ‘passaggio’ (pasqua) salvifico dal progettuale nativo al realizzato escatologico che si compie nel tempo e per mezzo del tempo, con quanto il tempo concretamente comporta (condizioni ambientali, culturali, politiche, psichiche, fisiche, spirituali ecc.); e dunque è libertà (cfr. 2.1.5.);
- un essere a due ‘momenti’, l’uno terreno e l’altro celeste, l’uno viatore e l’altro
definitivo, ove il primo si rivela cantiere di abilitazione (cfr. Gal 6,8) del secondo.
2.1.5. L’uomo viatore è intrinsecamente LIBERO ARBITRIO chiamato a diventare LIBERTÀ
DI SPIRITO. E cioè
- una creatura capace di coinvolgimento nell’opera salvifica di Dio a suo riguardo, sì da risultare arbitro della propria definitività, ‘sibi providens’, ossia responsabile di sé;
- un soggetto nel quale tale capacità, detta ‘libero arbitrio’, si mantiene a condizione di tramutarsi in libertà piena (‘libertà di spirito’), o potere di compiuta adesione alla comunione trinitaria con Dio (cfr. teologia della educazione della libertà). Dal che consegue che:
+ il libero arbitrio consiste nel potere non di scegliere il bene o il male (quasi che bene e male fossero sullo stesso piano), bensì di scegliere il bene col rischio di scegliere il male (cfr. Gv 8, 32-34);
+ la libertà non si definisce tanto sul potere di scegliere quanto dell’avere scelto
secondo verità (in modo assoluto il valore assoluto, in modo relativo, o subordinato, i valori relativi).
2.1.6. L’uomo viatore è una creatura ineluttabilmente esposta alla sofferenza (‘homo patiens),
- già per la sua incompletezza ontologica (radice della sofferenza detta ‘male inevitabile’)
- e soprattutto per la presenza del peccato (radice della sofferenza detta ’male evitabile’).
Approfondimenti in G. GOZZELINO, Dio e i mali del mondo, Elledici, Leumann (Torino) 2004.
2.2. LINEAMENTI QUASI NATIVI (opera solo dell’uomo) DELLA STRUTTURA SALVIFICA UMANA
2.2.1 L’uomo viatore, non come voluto da Dio (cfr. stato di giustizia originale, e Gn 3) ma quale concretamente esiste, è una creatura ESPOSTA ALLA LUSINGA DEL MALE DAGLI ALBORI DELLA STORIA alla sua conclusione.
- Siamo al doppio tema della demonologia (per approfondimenti cfr. G. GOZZELINO,
Indagine sul diavolo, Elledici, Leumann [Torino] 2002),
- che suppone l’angelologia (per approfondimenti cfr. G. GOZZELINO, Inchiesta sugli angeli, Elledici, Leumann [Torino] 20033).
2.2.2. L’uomo viatore concretamente esistente è una CREATURA FERITA DAL PECCATO: personale e già anche pre-personale.
- Peccato personale: introduzione di una pseudo post-destinazione (dal basso) al posto della pre-destinazione (dall’Alto), e conseguente “offesa di Dio” perché “offesa” dell’uomo e del mondo.
- PECCATO ORIGINALE ORIGINATO: stato di peccato: * consistente nella appartenenza ad una umanità peccatrice anziché innocente (perdita dello “stato di giustizia originale”); * presente nei suoi effetti (concupiscenza e perdita degli altri doni preternaturali) fin dall’inizio della esistenza; * già superato in sé dalla vittoria di Cristo offerta a tutti e fondamentalmente appropriata da tutti tramite la fede della Chiesa; * da abolire nei suoi effetti mediante l’appropriazione personale, coestesa alla vita; * aperto alla reviviscenza prodotta dai peccati personali.
- Peccato originale originante (o peccato del mondo): insieme degli atti peccaminosi che rendono peccatrice l’umanità, con speciale rilievo del peccato dei progenitori perché primo.
2.3. RAGIONI DEL NATIVO SALVIFICO STRUTTURALE E DEL QUASI NATIVO STORICO
2.3.1. Il nativo salvifico strutturale è dovuto al progetto di Dio (cfr. “pre-destinazione”) di una creazione costituita non da inerti manufatti bensì da autentici figli, perfetti come Egli è perfetto (cfr. Mt 5, 48), in possesso cioè delle Sue connotazioni fondamentali, prima tra tutte la fecondità; e dunque di una creazione di “figli nel Figlio incarnato”, stabiliti in una comunione con Dio di livello rigorosamente trinitario (il più profondo possibile). Cosa che comporta una identità di partenza delineata ma non ancora totalizzata,ossia una ‘essenza’ da completare in e mediante l’ ‘esistenza’.
2.3.2. Il quasi nativo storico è dovuto al fatto che se Dio per fare dell’uomo un figlio deve coinvolgerlo nella Sua azione salvifica, e ciò comporta la possibilità di un rifiuto, tale possibilità non può essere elusa neppure da Lui.
SPUNTI TEOLOGICI SUL TEMA DELLA SOFFERENZA1
1. Lo scandalo perenne delle sofferenze della vita «Sarò breve, ma implacabile, feroce quanto più potrò. Il male è: è un fatto. Esso colpisce quasi ciecamente l’innocente ed il colpevole. Colpisce il bambino. E’ tutto. E’ quanto basta. L’affare è sistemato. Niente e nessuno discolperà Dio della sofferenza di un bambino, di un innocente: niente, se non il fatto che egli non esiste. Se Dio è onnipotente, porta integralmente il peso del male: come potrebbe essere bontà assoluta? Non mi si venga a dire che la sofferenza dell’innocente (o anche la sofferenza in quanto tale) può giustificarsi in funzione di una felicità superiore che la nostra mente limitata non arriverebbe a percepire. Se faccio strappare a mio figlio un dente malato, se gli infliggo una piccola sofferenza adesso per evitarne una maggiore in avvenire, è perché non sono onnipotente; se lo fossi, gli risparmierei entrambe le sofferenze. No! Niente, nessun argomento sulla libertà, nessuna arguzia può preservare Dio dall’essere disonorato dal pianto di un innocente»2. Ecco un testo, tra i tanti, che rende ragione della dolente constatazione del Vaticano II: «L’ateismo ha origine non di rado […] dalla protesta violenta contro il male nel mondo» (GS 19). Ci si può abituare a tutto, ma non all’amaro boccone della sofferenza. Che niente al mondo, neppure la forza della fede, riesce a far diventare dolce per la elementare ragione che la sofferenza è e resta un male, e non esiste creatura che sia stata posta all’esistenza per il dolore, bensì per quel suo contrario che è la beatitudine senza ombre della piena comunione con Dio. Se si tiene conto che la creazione è in Cristo, ossia che Dio elargisce l’esistenza ad ogni sua creatura al solo scopo di farla partecipe della felicità della vita trinitaria, si può cogliere nelle parole di R. Ikor non solo i tratti fin troppo evidenti di una scomposta ribellione alle sventure della vita, ma anche la reazione sacrosanta, pur se espressa in maniera sgraziata, di un soggetto fatto per la gioia di fronte a ciò che ne costituisce l’esatta antitesi. Quella stessa reazione, per intenderci, che emerge dalla tenera compassione di Gesù, riflesso necessario della compassione di Dio, per le folle sofferenti (cf Mt 14,14), e dai segni del Regno da lui proposti (cf Lc 7,22), guarigioni d’ogni genere, e perfino risurrezioni, chiaramente intese non a blandire la sofferenza ma a farne drasticamente piazza pulita. Intanto però i miracoli di Gesù hanno portato beneficio (per di più, temporaneo) solo ai pochi che egli ha incontrato, la sua presenza non ha per nulla cancellato il dolore, e lo scandalo dell’unde malum (da dove e perché la sofferenza?) ha continuato e continua implacabilmente a tormentare le menti e i cuori. A tal punto da spingere non pochi, anche tra i credenti, a pensare che nulla, neppure la fede, sia in grado di dire a suo riguardo qualcosa di veramente sostanzioso. E’ la posizione di chi sostiene, ad esempio, che Gesù ha, sì, indicato le strade per combattere i mali del mondo, ma nulla ha insegnato sul loro perché. Quasi fosse possibile indicare i rimedi di un male senza cogliere qualcosa delle sue cause; o come se Gesù su questioni tanto decisive si fosse limitato a ribadire che non ne comprenderemo mai nulla. Ed è pure l'atteggiamento di chi di fronte ad una sventura che sappia di irreparabile non trova niente di meglio del ricorrere immediatamente, come ad un termine magico, alla parola ‘mistero’. Magari aggiungendo, con un pio sospiro: in paradiso, capiremo tutto. Quasi che Gesù fosse la luce solo del paradiso, e non anche di questo mondo precario in cui ci succede di vivere; o come se rivelare significasse soltanto velare di nuovo, e non anche, e previamente, svelare.

1 Riportato, con ampliamenti, da G.GOZZELINO, Spunti teologici sulla sofferenza, in «Catechesi» 73 (2004) n,2, 22-30
2 R. IKOR, in AA.VV., Dio oggi, Ave, Roma 1967, pp. 67-68.
In realtà, per quanto non ci risulti ancora possibile cogliere il più ed il meglio del suo fulgore, già da adesso Gesù costituisce la luce assoluta della vita e dei suoi nodi cruciali, ivi compresa la presenza maligna della sofferenza. Dal momento che viviamo nella «pienezza dei tempi» (Gal 4,4), è di noi che viene detto: «il popolo immerso nelle tenebre ha visto una grande luce; su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte una luce si è levata» (Mt 4,16). Certo, poiché nell’aldiqua gli occhi dello spirito non sono ancora abilitati a tanto splendore e ne colgono solo qualche barlume, non si tratta della completezza di evidenza attesa per la fine dei tempi. Ma la luminosità di Gesù, rivelazione in persona, è tale da far bastare anche questo poco. Che dunque il credente deve recepire ed annunciare, a se stesso e agli altri. E’ quanto ci proponiamo di illustrare, abbozzando alcuni approfondimenti teologici relativi ai tre punti cruciali delle radici del patire, delle ragioni della sua crocifiggente presenza, e delle vie del suo superamento.
2. Da dove vengono le sofferenze della vita
Ponendoci nella luce di Gesù, e quindi di tutta la Bibbia che in Lui si ricapitola, prendiamo atto che fondamentalmente le pene della vita, in qualsiasi loro forma e tipo, traggono origine da due diverse sorgenti, ben distinte ma purtroppo sempre congiunte. La prima, maledetta e solo da cancellare, è costituita dalla malvagità degli uomini, ossia dalle loro colpe: le quali possono e debbono essere prevenute, per cui le sofferenze che ne derivano sono chiamate male evitabile. La seconda, per sé negativa ma aperta al positivo, è data dai limiti della condizione umana terrena. Limiti che le sono intrinseci, per cui i travagli che essi producono vengono detti male inevitabile. E che appartengono alla condizione umana terrena precisamente in quanto terrena, e cioè in quanto situata nella fase di esistenza che va dalla concezione alla
morte.
2.1. La rivelazione cristiana insegna anzitutto che la prima è più feconda fonte di pene della vita terrena è data dai peccati degli uomini, propri ed altrui (male evitabile). Lo attesta esplicitamente una gran quantità di testi biblici. Ad esempio Gn 3, che fa chiaramente risalire la responsabilità dei mali del mondo alla colpa dell’uomo. Oppure Gv 5,14, che registra l’ammonizione di Gesù al paralitico sanato: «Ecco che sei guarito; non peccare più, perché non ti abbia ad accadere qualcosa di peggio». Per la verità, la frequenza e l’enfasi con cui la Bibbia collega la sofferenza e la morte al peccato sono talmente marcate da favorire l’idea sbagliata che il male morale costituisca l'unica fonte delle disgrazie del mondo. Ne forniscono un incontestabile riscontro esperienziale le vicende concrete della storia della umanità, sempre costretta a prendere coscienza della terrificante capacità del peccato di produrre e moltiplicare a dismisura ogni sorta di cause di dolore (guerre, genocidi, terrorismo, collasso ecologico, criminalità, egoismi, ecc.).
2.2. Esiste peraltro un legame reale anche tra sofferenza e condizione terrena in quanto terrena (male inevitabile). Per limitarci ad alcune testimonianze del Nuovo Testamento, segnaliamo il testo dove ai discepoli, che danno per scontata la corrispondenza tra sofferenza e peccato personale o parentale e lo interrogano sui motivi della infermità del cieco nato, Gesù risponde seccamente: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio» (Gv 9,3). O quello in cui egli esclude che i galilei messi a morte da Pilato, ed i diciotto rimasti uccisi in seguito al crollo della torre di Siloe, siano più peccatori degli altri (cf Lc 13,1-5). Non senza notare che in alcune della guarigioni compiute da Gesù (cf Mc 3,1-6; Mt 12,10-13; Lc 6,6-10), e in molte di quelle operate dai discepoli (cf At 3,2-8; 9,33-34; 14,8-3 Approfondimenti in G.GOZZELINO, Dio e i mali del,mondo, Elle Di Ci, Leumann (Torino) 2004. 10), manca qualsiasi accenno al peccato; e che la lettera di Giacomo, con l’ipotizzare l’applicazione della unzione degli infermi a malati privi di colpe gravi (cf Gc 5,15) sottintende la possibilità della derivazione della malattia da altre cause. L’esperienza corrente ribadisce a sua volta che le sofferenze e la morte degli uomini non posseggono quale unica radice i peccati propri o altrui: terremoti, eruzioni vulcaniche, alluvioni, siccità, incidenti fortuiti, vecchiaia, ecc. sono fenomeni per sé non derivati da colpe degli uomini; anche se le cosiddette calamità naturali del tutto prive di una pur piccola responsabilità morale sembrano essere piuttosto rare. Altrettanto va detto di molti errori, che magari generano gravi sofferenze, e però sono e restano non frutto di malvagità ma sbagli. In paragone al male evitabile, il quoziente di sofferenze indotto da questa seconda fonte appare limitato, e tuttavia è reale, per cui richiede un riconoscimento adeguato. Il suo ‘da dove’ è costituito dalla intrinseca caducità di cui sono plasmati l’uomo e il mondo dell’aldiqua. Caducità a sua volta derivata dall’insuperabile carattere di provvisorietà che è specifica della esistenza terrena: giustamente chiamata ‘viatrice’ perché in via, verso una pienezza voluta da Dio e non raggiungibile prima della morte, e a cui si è abilitati dal prestare consenso a Gesù datore dello Spirito. Gli uomini vengono all’esistenza non quali prodotti finiti, già completati, ma alla maniera di realtà embrionali, da sviluppare. Nessuno nasce adulto, bensì bambino, con l’onere di un lungo e laborioso processo di maturazione da compiere nel gioco dei fattori concreti della propria storia. Tutto nel mondo terreno esiste a modo di promessa da portare ad adempimento, con i limiti e i disagi di quanto si trova per strada. In sostanza, in rapporto al male inevitabile ogni uomo si scopre sottoposto a quattro fattori concomitanti di travaglio. Anzitutto, alla povertà iniziale di essere derivante dal venire all’esistenza ‘in codice’, a modo di un abbozzo, con le gravi carenze di quanto è tuttora in costruzione. Poi, all’intrinseca precarietà dei valori terreni, non accessibili in pari misura a tutti, e comunque ineluttabilmente destinati ad essere progressivamente cancellati dal passare del tempo e aboliti dalla morte. Poi ancora, alla costosità del processo di maturazione, causata per un verso dalla necessaria soggezione alla fatica propria di ogni conquista, e per l’altro dalla vertiginosa (soprannaturale) altezza della mèta da raggiungere, quella della comunione trinitaria, talmente elevata da risultare del tutto impossibile a chi non si affida incondizionatamente alla onnipotenza divina. E infine, al verificarsi, generato dall’amore, della compassione, ossia della dolorosa condivisione della sofferenza delle persone care.
3. Perché esistono le sofferenze della vita
L’individuazione delle due radici del patire umano apre un varco alla percezione delle ragioni della sua presenza nel mondo.
3.1. Nel caso del male evitabile, visto che esso rappresenta l’intrinseco inesorabile frutto del peccato, tale ragione (se così può essere detta una opzione tanto distruttiva e in tal senso tanto irragionevole) risiede unicamente in quell’uso distorto della libertà, fatta per la scelta del bene e snaturata dalla scelta del male, che per l’appunto si chiama peccato. Con ciò si comprende quanto sia terribile la disgrazia del male morale. E in chi realmente risieda la responsabilità della quasi totalità della sofferenza che dilaga nel mondo, se in Dio o non piuttosto nell’uomo3.
3.2 Nel caso invece del male inevitabile, il motivo del suo esserci va rintracciato,
come già detto, nel fatto che il mondo terreno, non essendo ancora il mondo finale od escatologico voluto da Dio ed interamente degno della sua sapienza, onnipotenza ed amore, si trova soggetto ai limiti di quanto è per strada, ivi compresa la nefasta possibilità, presto diventata realtà, del peccato. Ma allora si fa imprescindibile una domanda davvero cruciale, che, se da un lato permette di capire la violenza delle proteste alla R.Ikor in quanto chiarisce che una certa responsabilità di Dio nei confronti dei mali del mondo esiste davvero, dall’altro fa toccare con mano quanto e come il confronto con lo scandalo del dolore giovi ad intendere il senso della vita terrena. Eccone i termini: visto che Dio è infinitamente buono e assieme realmente onnipotente, perché mai non ha posto all’esistenza un uomo e un mondo immediatamente totalizzati, immuni fin dal principio dai riflessi dirompenti della non completezza? Per quale ragione non li ha subito creati nella glorificazione, senza anteporre a tale esito, che pure è l’unico da Lui voluto, una esistenza terrena carica di tanti e tali dolori? Sul fondamento dei contenuti del messaggio cristiano, intravediamo due motivi, splendidamente consentanei al suo carattere di buona novella. Il primo emerge dalla identità di Dio manifestata in pienezza dalle parole ed opere di Gesù. Dio è l’Amore infinito che nella creazione vuole comunicare se stesso. Poiché l’Amore non può imporsi bensì solo proporsi, poiché non può ricorrere a qualsiasi forma di costrizione senza snaturarsi, bisogna che la risposta umana alla proposta divina disponga di un previo momento di assenso. Tale momento è costituito dall’arco della esistenza viatrice. Il secondo consegue dalla connotazione trinitaria della destinazione finale della creazione. L’uomo ed il mondo, creati ad immagine di Dio, sono da Lui destinati ad essere perfetti della Sua perfezione più intima (cf Mt 5,48). La perfezione profonda di Dio risiede nella fecondità senza limiti messa in atto dall’infinito scambio di amore proprio della vita trinitaria. Dunque, per essere realmente parte viva della famiglia trinitaria di Dio, per diventare autenticamente figli del Padre alla maniera del Figlio, bisogna che gli uomini dispongano di una loro reale fecondità, solo riflessa, certo, ossia interamente mutuata dall’alto, ma veramente propria. Ciò può accadere unicamente se esiste una previa condizione di progettualità non ancora compiuta, che consenta alla gloria del paradiso di essere un esito prodotto non solo da Dio ma anche dagli uomini. Per questo, malgrado i suoi prezzi (altissimi per tutti, a cominciare da Dio), il Padre la vuole.
Con ciò diventa estremamente palese quanto rivelato in pienezza dall’esito della esistenza terrena di Gesù (cf Fil 2, 8-9), e cioè che l’aldilà è deciso dall’aldiqua, che il tempo sta all’eternità come un percorso al proprio traguardo: con le responsabilità, i disagi e i rischi conseguenti, ma anche con le possibilità e le gioie prestate dalla gestazione di una vita di incomparabile splendore (cf Rm 8,18). Con ciò si comincia pure ad intravedere la strada da percorrere per dare risposta alla domanda giustamente sempre impellente del perché Dio permetta questo o quest’altro male, e in genere il male in qualsiasi sua forma. Premesso che per Dio permettere significa semplicemente non intervenire in proprio, unilateralmente (e cioè indipendentemente dalla compartecipazione dell’uomo) a prevenire il male prima che si verifichi o a cancellarlo quando sia sopraggiunto (come sembra accadere col miracolo), e dunque non accettare di comportarsi da tappabuchi, si percepisce che Dio agisce così per non emarginare, frustandone il senso, la Sua creatura togliendole quella possibilità di coinvolgimento nella Sua opera salvifica che rendendola feconda la introduce davvero nella modalità filiale trinitaria (fatta non solo di ricevere ma anche di dare, e dunque anche di fecondità, resa possibile per l’appunto dal coinvolgimento) in vista della quale (come insegna l’attestazione di fede della creazione in Cristo) è stata posta all’esistenza.
E si percepisce il motivo per cui i miracoli si avverano sempre e solo in via eccezionale, e a condizioni ben determinate. I miracoli sono e restano eccezioni, intese unicamente alla “gloria” divina (o manifestazione della identità d’amore infinitamente eccellente di Dio), perché pur comportando costantemente, come diremo subito, la risposta di fede dei beneficiati, e dunque quanto meno tale forma di coinvolgimento, risultano pur sempre in qualche misura un ‘fare al posto loro’ che diminuisce il loro tasso di compartecipazione, e dunque non possono davvero costituire la norma della loro vita. I miracoli, inoltre, possono compiersi solo a condizione di essere richiesti con fede, il che non significa affatto, come si tende comunemente a pensare, con l’incrollabile fiducia che il prodigio sarà concesso, bensì con quella intelligenza, precisamente di fede (ossia mutuata dall’apertura alla rivelazione dall’alto), che in modo assoluto domanda sempre e solo il Bene assoluto, ossia l’abilitazione alla comunione filiale trinitaria (cf le prime tre domande del “Padre nostro” e la preghiera “nel nome di Gesù” di Gv 16,23-24), e sa chiedere i beni relativi, e cioè i valori propri della vita terrena in quanto terrena, unicamente in modo relativo (cf la quarta richiesta del “Padre nostro” e Lc 12,31; Mt 6,33). Cosa che, liberando Dio dal rischio di incrementare, con l’esaudire ogni loro richiesta, la perenne inclinazione degli uomini ad assolutizzare i valori relativi, gli consentirebbe di essere (nella logica del centuplo in questa vita promesso da Gesù ai discepoli: cf Mc 10,30; Mt 19,29; Lc 18,30) straordinariamente più munifico anche su questo fronte.
4. Che cosa fare con le sofferenze della vita
Ed eccoci alla terza e ultima decisiva questione della gestione costruttiva della sofferenza e della morte, ossia del che cosa fare per giungere alla loro cancellazione, tanto desiderata non solo dagli uomini ma anche e soprattutto da Dio, e perciò resa da Lui accessibile in Cristo. Premesso che tale cancellazione rappresenta uno dei versanti più importanti, anche se non affatto il più determinante (che resta quello della comunione trinitaria con Dio), dell’oggetto specifico della speranza cristiana, e tenendo ben fermo che la risurrezione degli uomini consiste nella loro partecipazione all’esito prodotto dalle scelte concrete della vita terrena di Gesù, e cioè alla sua risurrezione, l’incontrovertibile criterio di ortoprassi da assumere su questo terreno può essere soltanto il comportamento di Gesù di fronte alla sofferenza. Comportamento che si lascia riassumere nella asserzione di una ferma ed inequivocabile opposizione, contrassegnata a fondo dall’essere assieme: totale, radicale, paziente e infallibilmente garantita se vissuta come e con Gesù.
4.1. Il primo aspetto che emerge dalla condotta di Gesù di fronte alle pene della vita è quello di una opposizione totale che non conosce compromessi (cf Mt 4,23). Parole e prassi di Gesù propongono un messaggio di buona novella per i ‘poveri’, ma tali risultano essere precisamente i sofferenti, di qualunque tipo e censo, tanto che nessuno viene escluso dal suo passare «beneficando» (At 10,38). Quando vuole riassumere il senso della propria missione, egli ne addita la sostanza nel dono della gioia (cf Gv 15,11), esatta antitesi del dolore. E affida ai discepoli un compito di universale ‘bene/volenza’ (voler bene) del tutto identico al suo (cf Mt 10,8). Ne consegue l’esigenza di respingere qualsiasi forma di dolorismo, o apprezzamento concesso alla sofferenza in quanto tale, magari per gli effetti di maturazione che talora produce, o perché viene detta essere la via scelta da Gesù. In realtà, quegli effetti provengono esclusivamente dal ricorso al Signore (cf At 4,12); se lasciata a se stessa, la sofferenza riesce solo ad abbruttire. E la strada scelta da Gesù non è affatto la via del dolore bensì dell’amore senza limiti, sottoposto al soffrire non certo per una inclinazione personale di Gesù al patire, di cui nel vangelo proprio non si dà traccia (cf Mt 26,39), bensì per la reazione omicida del peccato alla sua missione (cf At 3,15). Ne deriva correlativamente l’impegno di liberare il cristianesimo dalle immagini false e diaboliche a cui troppo spesso ha prestato il fianco, quali quella dell’essere la religione del 4 Eccetto che nel senso, molto parziale e tuttavia reale, per il quale è e sarà sempre vero che Dio, con il Suo stesso esserci (‘da-sein’), non potrà mai non smentire, non mandare in frantumi, le miserande utopie di autosufficienza su cui il peccatore ha costruito la propria identità (‘so-sein’),svelando con ciò stesso l’enormità della inconcepibile tragedia (cf Mt 26,24) sottesa a tale impresa. svelando con ciò stesso tutta l’insopportabile tragedia sottesa a tale impresa.
5 «Quando la Bibbia parla di castigo o di pena del peccato, non vuole per nulla far pensare a qualcosa che consegue sì al peccato, ma come derivante dal di fuori, o addirittura da Dio che punisce il peccatore: l’origine del male esistente nella nostra storia non è da ricercare in Dio, bensì nella libertà dell’uomo, cf Ger 2,19» (M.SERENTHÀ, Sofferenza umana. Itinerario di fede alla luce della Trinità, Ed.Paoline, Cinisello Balsamo 1993, p.15). O meglio, in quel suicidio della libertà dell’uomo che ha luogo quando essa, invece di scegliere il bene di cui è capacità, opta per il male, che la distrugge (cf Gv 8, 34).
6 Si pensi al tragico fallimento dei nove, tra i dieci lebbrosi guariti da Gesù, che non arrivano alla fede che salva (cf Lc 17,12-19), ossia alla percezione che il vero dono di Gesù è Gesù stesso. culto della croce come dolore, mentre al contrario la sostanza della croce di Cristo risiede nella rivelazione della dedizione di Dio alla realizzazione della felicità degli uomini. O dell’essere la religione della mortificazione dei valori terreni per le sue richieste di rinnegamento (cf Lc 9,23), come se quest’ultimo fosse una mutilazione dell’essere umano, mentre invece è condizione della sua integrità. O ancora, dell’essere la religione della paura dei castighi di Dio, che viceversa in quanto si suppongono prodotti da Dio semplicemente non esistono4, perché le pene del peccato provengono precisamente dal peccato, proprio e altrui 5.
4.2. Tipica della opposizione di Gesù al patire è pure la radicalità, nel senso più letterale del termine, quello del riferirsi alle ‘radici’ di qualcosa. Se Gesù non lesina le guarigioni, neppure si affanna a operarne il maggior numero possibile, segno che punta a qualcosa di molto più profondo, di cui le guarigioni, comprese le risurrezioni (che infatti non sono altro che rianimazioni), non rappresentano che una cifra esterna. Le sue mosse non si accontentano di ‘radere’ le sofferenze dal cuore dell’uomo come si radono i peli di una barba destinata comunque a ricrescere, ma mirano a ‘sradicarle’, come si estirpa un tumore per scongiurare definitivamente una metastasi. Egli non si ferma alla periferia dei problemi umani, né viene a sopprimere le manifestazioni di una deformazione, bensì la sua causa. E quindi punta specificamente a scardinare le due radici del patire umano, tanto il peccato, seme maledetto del male evitabile, quanto l’incompletezza terrena, sorgente del male inevitabile. Altrettanto ha il compito di fare, attingendo alla forza del Signore, il credente. Che perciò deve, sì, volgersi al superamento, o quantomeno alla attenuazione, delle situazioni di sofferenza attraverso i mezzi offerti dal progresso delle scienze, della tecnica, della strumentazione politica ed economica, e di quant’altro giova. Ma anche e soprattutto mirare al cambiamento del cuore, condizione prima e insuperabile di ogni altra forma di abolizione del male, e unica strada per una vittoria totale.
4.3. Proprio perché tanto radicale, nel senso spiegato, l’opposizione di Gesù ai mali della vita si rivela, ed eccoci al terzo contrassegno, proporzionatamente paziente. Non si fanno maturare le radici di una esistenza, né la si rettifica, a schiocchi di dita, bensì con un processo coesteso alla sua durata. Non si realizza il sogno dell’abolire ogni sventura se il cuore non viene interamente bonificato dalla presenza delle due sorgenti del patire. Ma ciò richiede la pazienza del contadino (cf Gc 5,7-8), che non pretende l’immediata trasformazione del chicco di frumento in spiga ma lascia che esso rimanga sepolto per mesi nel terreno in cui è stato seminato, esposto a tutte le naturali intemperie della stagione (cf Gv 12,24). Così fu il vissuto di Gesù, a beneficio di tutti. Così vanno affrontate, sulla sua scia, le proprie sofferenze. Non con la pretesa, più che comprensibile ma ultimamente fatua, di cancellarle immediatamente a colpi di miracoli, che eretti a sistema renderebbero impossibile il coinvolgimento dell’uomo nella azione di Dio sulla storia, frustrandone totalmente il senso, e costituirebbero pur sempre un rimedio precario e fuorviante6. Bensì nella piena appropriazione della pratica di Gesù dell’arrendersi per resistere (del morire per risorgere), ossia del farsi lealmente carico, senza vane ribellioni, del peso del patire, per arrivare, come Gesù ed in forza sua, a essiccarne definitivamente le fonti (cf Ap 7,17). Non mancando di rispondere all’inevitabile angoscioso interrogativo sul «perché proprio a me?» col ricordare a se stessi che si è creature terrene quanto qualunque altra, inserite in un mondo dai molti elementi fortuiti, inesorabilmente esposte ai riflessi di bene o di male dell’altrui libertà, e pur sempre in qualche modo responsabili, visto che nessuno è senza peccato, della schiacciante aliquota di dolore proveniente dal male morale.
4.4. Ultimo e più importante carattere della opposizione prestata dal Signore al dolore è infine l’essere infallibilmente garantita (fondata), sia in relazione agli esiti della lotta da condurre, sia in rapporto alla forza necessaria per realizzarli. Sì da accreditarsi come tutt’altro che fumosa utopia.
Con l’arrendersi per resistere, ossia col calarsi nella sofferenza e la morte per sopprimerle dal di dentro, proprio alle radici, Gesù ha acquisito la risurrezione, loro totale e irreversibile superamento. Che infatti non è venuta semplicemente dopo la sua morte, a modo di un rattoppo approntato in extremis da un Dio un po’ sonnolento, ma precisamente (cf il «per questo» di Fil 2,9) dalla sua morte, o meglio dal suo perseverare a qualunque costo nella pratica specificamente divina del vincere il male unicamente con il bene (cf Rm 12,21). Altrettanto guadagna chi al seguito di Gesù percorre il medesimo itinerario di resa per la resistenza. Lo attesta Gesù stesso, col proclamarsi unica vera via alla vita eterna (cf Gv14, 5-6), e con l’assicurare per l’immediato della vita terrena un centuplo di guadagno (cf Mc 10,30), consistente, in rapporto al patire, nella diminuzione di sofferenze determinata dall’attenuarsi della presa del peccato sul mondo e nella capacità di ricavare erosione delle radici del dolore anche dal gran male del soffrire.
Il segreto della risurrezione di Gesù risiede però nella sua unità con il Padre (cf Gv 10,30), nella sua consegna incondizionata a lui (cf Lc 23,46), nell’avere attinto la forza dell’adempimento della propria missione di salvezza da lui. E dunque, altrettanto vale per gli uomini. Dio solo può suscitare, reggere e portare a compimento l’opposizione totale, radicale e paziente richiesta per la definitiva abolizione della sofferenza. A lui solo è possibile rovesciare il peccato e portare a compimento l’incompletezza terrena. Lui solo può trarre il bene anche dal male, salvando dalla terribile disgrazia del soffrire per niente. Ne deriva la legittimità del concentrare l’ortoprassi del trattamento della sofferenza nelle due parole chiavi pregare e offrire. Pur senza esclusivizzarle, tanto quanto la fede non esclude, ma al contrario suscita, le opere. Bisogna pregare: perché l’orazione slega l’onnipotenza di Dio, vincolata al coinvolgimento umano, consentendo l’effettiva partecipazione dell’orante all’esito della lotta di Gesù.. Bisogna offrire, sia nel senso negativo del non trattenere nelle proprie mani una serpe di tale invincibilità, sia soprattutto nel senso positivo dell’affrettarsi a gettarla nelle mani di Dio: perché solo esse permettono alle possibilità costruttive del dolore, altrimenti irrealizzabili, di diventare felice realtà. Così come il pane ed il vino, posti sulla mensa eucaristica, si cambiano in corpo e sangue di Cristo unicamente in forza dello Spirito del Padre e di Gesù. Occorre, per dirla in una parola, vivere nello spirito di confidente sicurezza formulato dalla stupenda professione di fede del Sal 22,4: «Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza». Per la gioiosa consapevolezza di fede che «a coloro che amano Dio, tutto concorre al bene» (Rm 8,28).
I. Appendice ai nn. 2.1.4 e 2.1.5.l del ‘Breve corso di Antropologia Teologica’
TESTO TRATTO DA S. FAUSTI, OCCASIONE O TENTAZIONE? ARTE DI DISCERNERE E DECIDERE, ANCORA,
MILANO 19982, PP. 18-21.
L'uomo si distingue dall'animale perché agisce con intelligenza, dicono alcuni. Altri preferiscono dire che si distingue per la sua stupidità. L’animale infatti, se è sano, non sbaglia. Programmato per la conservazione della specie e dell'individuo, è guidato infallibilmente dall'istinto. Non si pone la domanda: «Che fare?», che risponde all'enigma: «Chi sono?». Noi invece possiamo sbagliare. Dotati di ragione, la usiamo solo se, come e al fine che vogliamo o riusciamo. Gli animali sono come nascono. Noi invece «è per nascere che siamo nati» (P. Neruda). L'uomo non è ciò che è, ma ciò che non è ancora: diventa secondo ciò che desidera. La sua natura, a differenza dal resto, è cultura. Nel racconto della Genesi si dice di ogni creatura che è fatta «secondo la sua specie». Solo lui fa eccezione: non appartiene a nessuna specie. Aperto a tutto, lui stesso, nella sua sovrana libertà, determina la sua natura. La sua esistenza è una lenta gestazione, fino a quando ..nasce" secondo la natura che lui stesso ha stabilito In quello che è il "manifesto dell'umanesimo" Pico della Mirandola racconta: «Nell'uomo nascente il Padre ripose semi di ogni specie e germi di ogni vita. E secondo che ciascuno li avrà coltivati, quelli cresceranno e daranno in lui i loro frutti. E se saranno vegetali, sarà pianta; se sensibili, bruto; se razionali, diventerà uomo celeste; se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio. Ma se, non contento della sorte di nessuna creatura, si raccoglierà nel centro della sua unità, fatto uno spirito solo con Dio, nella solitaria caligine del Padre colui che fu posto sopra tutte le cose starà sopra tutte le cose. Chi non ammirerà questo nostro camaleonte? O piuttosto chi ammirerà altra cosa di più?» (De hominis dignitate).
Il sogno del grande umanista è diventato realtà. L’uomo, consegnato fin dal principio alla propria libertà, l’ha finalmente conseguita. Ora è «condannato alla libertà» (J.P. Sartre). Non solo come desiderio o progetto, ma come realtà di fatto. L’ammirevole "camaleonte", affidato alle proprie mani, può diventare tutto, trasformarsi in pianta o in Dio, secondo il suo libero proposito. Ma qual è il suo proposito, l’“obiettivo” che si pone-innanzi e verso cui si proietta con il suo agire? Il tutto o il nulla, la vita o la morte? «Che fare per ereditare la vita eterna?», domanda un sapiente a Gesù (Lc 10, 25). L’uomo cerca una vita che non sia morte, che non conosca limiti di qualità e di quantità, che mantenga la promessa di gioia e felicità: desidera la vita eterna. Sa che è un'eredità che gli spetta, ma anche che è legata a un «che fare?» incerto. A differenza del bambino, non ignora che il frutto è donato a chi coltiva l'albero. La domanda: «che fare?», sua miseria e grandezza, riguarda qualcosa che non c'è e viene all'esistenza grazie alla sua azione più o meno libera. Questa libertà lo rende simile a Dio stesso, partecipe della sua prerogativa di creatore, che fa esistere ciò che non c'è, con un atto di intelligenza e di amore. Per agire non è sufficiente la semplice indicazione: va' dove ti porta il cuore [Susanna Tamaro]. Il cuore è «un vaso che contiene insieme l'acqua e il fuoco». Biforcuto al centro come la Via Lattea, porta sempre da due parti. Ha desideri tra loro contrari (cf Gal 5, 17). Bisogna ascoltarli e conoscerli bene. Per non lasciarsi ingannare dalle Sirene, non basta mettere la cera negli orecchi - impossibile, perché il canto risuona dentro il cuore -, né giova farsi legare all'albero maestro, bello ma atroce, atrocemente bello! Occorre invece liberare il "canto migliore". Il desiderio è sempre nostalgia, dolore-per-il-ritorno a casa. Ma qual è la casa dell'uomo? Creato alla fine di tutto, non è di casa presso nessuna creatura. In lui si compendiano mondo astrale e terrestre, vegetale e animale. Tutto è in lui presente; ma lui non si riduce né agli influssi astrali, né alle reazioni chimiche tra i suoi vari elementi, né alla complessità della sua vita vegetale e animale. Porta dentro di sé le tracce del suo lungo cammino: lo splendore del cielo e l'opacità della terra, la durezza della pietra e la fluidità dell'acqua, la forza della quercia e la delicatezza dell'anemone, il guizzo del serpente e il volo dell'uccello, la tenerezza del mammifero e la sua aggressività istintiva. Ha le caratteristiche di ogni cosa e il loro contrario; non c'è da stupirsi, ma solo da tenerne conto! Tutto fa parte di lui, ma non è lui. In lui i singoli elementi sono tra loro ordinati, l'inferiore al superiore, e lui stesso può ordinare tutto alla libertà per amare. Creato al sesto giorno, ha il compito di portare l'universo al suo compimento, al riposo del settimo. Se si lascia dominare dai vari elementi, precipita dal suo trono e distrugge se stesso: le sue parti si staccano e degenerano a forma autonoma di vita inferiore, animale, vegetale o inerte che sia. E con lui la creazione stessa è staccata dalla sua sorgente, destinata al caos. La sua libertà è il bivio tra la vita e la morte. Re del creato, immagine di Dio, è pontefice: è "la" creatura, che fa-da-ponte tra creazione e Creatore. La prima parola che gli fu rivolta quando si allontanò da Dio, è: «Dove sei?». Infatti non era più nel suo "luogo" (Ruperto di Deutz). E si sentì come un osso slogato, dolorosamente fuori posto. Perché il suo "posto" è Dio: «in lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17, 28). Tuttavia ogni cosa tende al suo luogo naturale". Per questo è l'eterno viandante [l’ebreo errante], fuggiasco o pellegrino, sempre inquieto e angosciato, fino a quando non raggiunge la sua destinazione.

II. Cenni bibliografici
1.1. Manuali teologici
- G.GOZZELINO, Il mistero dell’uomo in Cristo. Saggio di protologia, Elle Di Ci, Leumann (Torino) 1991
- J.L.RUIZ DE LA PEÑA, Immagine di Dio. Antropologia teologica fondamentale, Borla, Roma 1992
- L.LADARIA, Introduzione alla antropologia teologica, Piemme, Casale Monferrato 1992
- AUTORI VARI, La persona umana. Antropologia teologica, Jaca Book, Milano 2000
- R.FISICHELLA, La via della verità: il mistero dell’uomo nel mistero di Cristo, Paoline, Milano 2003
1.2. Testi settoriali divulgativi
- A.MANARANCHE, Adam où es-tu? Le péché originel, Fayard, Paris 1990 (eccellente)
- I.BIFFI, Progettati in Cristo, Jaca Book, Milano 1993
- M.ZUNDEL, Quale uomo e quale Dio, Messaggero, Padova 1994
- E.LECLERC, Cammino di contemplazione, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996
- I tre opuscoli di G.GOZZELINO citati ai nn. 2.1.6 e 2.2.1.



http://www.selitalia.net/sel/MasterEducatoriCristiani/portale/Discipline/Gozzelino.pdf

Nessun commento:

Posta un commento