DON ANTONIO

lunedì 5 dicembre 2011

Maria icona vivente del dolore del Dio trinitario

I Vangeli ci presentano Maria partecipe dei limiti della condizione umana e delle sofferenze di madre e discepola di Cristo. – Contemplandola, ogni fedele viene introdotto più intimamente nel mistero di Cristo e nel suo dolore salvifico.

A prima vista ogni analogia di Maria con la Trinità si dovrebbe scartare. I Padri infatti – e Gioacchino da Fiore dopo di loro – hanno puntualizzato chiaramente che non si può ammettere una quarta persona della Trinità. Anche Maria, pur arricchita di grazia e scelta come primo luogo di azione della Trinità, rimane una pura creatura.

Dal punto di vista cultuale ne consegue che mentre la Trinità e la stessa Croce sono oggetto di adorazione (quella rivolta alla Croce non è adorazione assoluta ma totalmente relativa), Maria può essere soltanto venerata. Icasticamente Montfort afferma : "La Croce è adorabile. / Maria, no" (C 102,23).

Qui sono da ricordare almeno tre interventi importanti per la pastorale. Il vescovo Epifanio in polemica con le colliridiane afferma : "Maria sia onorata, si adori il Signore Padre, Figlio e Spirito Santo", il VII Concilio ecumenico (quello di Nicea II) distingue tra "proskynesis lautretiké" da riservare a Dio e "proskynesis timetiké" da attribuire legittimamente a Maria e ai Santi, e infine il Concilio Vaticano II stabilisce che il culto di Maria differisce essenzialmente dal culto di adorazione e lo promuove (cfr. LG 67).



E tuttavia nel 1640 il vescovo benedettino José de la Zerda scrive un volume dove chiama Maria "apocalisse della Trinità". Infatti, fin dall’annunciazione Maria non è comprensibile senza l’opera di Dio Altissimo, del messia Figlio dell’Altissimo e dello Spirito Santo. Ciò significa che la Madre di Gesù rimanda essenzialmente alla Trinità che ha agito in lei.

Sul Calvario la relazione di Maria alla Trinità riceve conferma e tonalità nuove. La Madre di Gesù è unita a suo Figlio mediante l’offerta del dolore salvifico.

Il pianto di Maria sul Cristo morto rimanda spontaneamente al dolore del Padre, come ha intuito l’arte del secondo millennio cristiano. In ambedue i casi si tratta di com-passione.

Una differenza da evidenziare consiste nel fatto che Maria rappresenta il Padre in quanto soffre per la passione del Figlio, ma non lo rappresenta in quanto abbandona il Figlio. Maria non lo condanna a morte né lo abbandona, perché sta lì presso la Croce, tanto che Gesù la nota e la rivela nella sua identità profonda di madre del discepolo amato.


A. Brogli, Salute degli Infermi – LEV, Litanie lauretane.

Maria icona vivente del Vangelo della sofferenza

Nella lettera apostolica Salvifici doloris (1984) Giovanni Paolo II sottolinea il "singolare apporto al vangelo della sofferenza" offerto da Maria con l’intera sua vita e soprattutto con la sua presenza al Calvario presso la Croce di Gesù (cfr. SD 25).

Dieci anni dopo (1994) il Papa conia un’espressione riassuntiva e densa di significato: Maria "icona vivente del Vangelo della sofferenza".

Esiste dunque un "vangelo della sofferenza", cioè un lieto annuncio che il dolore sofferto per amore con Cristo diviene ‘dolore salvifico’. E Maria, che ha sperimentato il dolore a motivo di Cristo, con lui e per sua grazia lo ha trasformato in spazio di salvezza.

Il popolo cristiano ha intuito ed espresso in pie pratiche i dolori di Maria. In particolare "il mistero della partecipazione della Vergine, addolorata, alla passione e morte del Figlio è probabilmente l’evento evangelico che ha trovato più intensa e vasta risonanza certamente nella religiosità popolare".


A. Brogli, Consolazione degli Afflitti – LEV, Litanie lauretane.

La devozione dei fedeli e la genialità degli artisti si sono espresse in produzioni di alto lirismo circa la Mater dolorosa: basti pensare allo Stabat Mater, musicato tra gli altri da G. B. Pergolesi, o alla Donna de Paradiso di Jacopone da Todi, alla Via crucis, alle varie Pietà di Michelangelo o del Beato Angelico o di Tiziano.

A partire dal XIV secolo, si sono codificati i Sette dolori di Maria in riferimento a sette episodi evangelici: la profezia della spada (Lc 2, 34-35), la fuga in Egitto (Mt 2, 13-14), lo smarrimento di Gesù al tempio (Lc 2, 43-50), l’incontro di Gesù sulla via del Calvario (cfr Lc 23, 26-27), la presenza di Maria sotto la Croce (Gv 19, 25-27), deposizione o pietà (cfr Mt 27, 57-59) e sepoltura di Gesù (cfr Gv 19, 40-42).

Se percorriamo i Vangeli giungiamo alla constatazione che, al di là delle varie enumerazioni dei dolori di Maria, l’esistenza di Maria è segnata dalla sofferenza e dalle difficoltà proprie della condizione umana. Tuttavia, come per Gesù, anche per Maria dobbiamo evitare la generalizzazione che dipinge tutta la loro vita come "croce e martirio".

Essi hanno conosciuto periodi o momenti di serenità e di gioia intensa. L’esultanza nello Spirito è testimoniata per Gesù (Lc 10, 21) e per Maria (Lc 1, 47).

Maria, figlia di Sion invitata alla gioia messianica (Lc 1, 28), è da ritenersi coinvolta nella gioia della risurrezione almeno al pari dei discepoli (cfr Lc 24, 41; Gv 20, 20). Ciò spiega come nel Medioevo si sia sviluppata anche la devozione alle Sette allegrezze di Maria.

I Vangeli ci presentano Maria come partecipe dei limiti della condizione umana e delle sofferenze conseguenti al fatto di essere madre e discepola di Cristo. Contemplandola, ogni fedele viene introdotto più intimamente nel mistero di Cristo e nel suo dolore salvifico.

Pur provata dalla sofferenza, Maria è esempio di composto dolore, aperto alla speranza della risurrezione di Gesù. Ella pertanto ha contribuito efficacemente alla cristianizzazione del cordoglio di fronte alla perdita dei propri cari. Ha liberato i Cristiani dalla disperazione e li ha aiutati a dire di sì alla vita nonostante la negatività della morte.


A. Brogli, Aiuto dei Cristiani – LEV, Litanie lauretane.

Maria icona viva della sofferenza del Padre

La storia del Cristianesimo e della sua inculturazione hanno talvolta accomunato Maria e il Padre in un atteggiamento d’impassibilità dinanzi alla passione e morte del Figlio.

La corrente stoico-cristiana che ritorna di tanto in tanto lungo i secoli, soprannaturalizza la figura di Maria immettendola nell’orbita storico-salvifica, ma rischiando di assimilarla al filosofo stoico che rimane immoto anche se il mondo gli cade accanto.

In questa chiave Sant’ Ambrogio presenta Maria in piedi presso la Croce, senza pianto, anzi intrepida: "Mentre gli Apostoli fuggivano, Maria, non certo impari ad un compito degno della Madre di Cristo, stava ritta di fronte alla Croce e mirava con occhi pietosi le piaghe del Figlio, perché attendeva non la morte del pegno, ma la salvezza del mondo".

Forse il vescovo di Milano non intende negare a Maria le lacrime della "donna forte", ma piuttosto quelle che esprimerebbero un dolore troppo umano.

In reazione allo "spasimo", giansenisti e alcuni autori spirituali del Seicento francese tendono a descrivere Maria con il ciglio asciutto ai piedi della Croce: "Nessun segno di debolezza... nessun movimento indecente; ella non emise alcun grido, non sparse alcuna lacrima..., non sentiva nessun turbamento nell’anima".

Questo processo di disumanizzazione raggiunge punte estreme in autori pur rispettabili dell’Ottocento italiano, come il teatino G. Ventura, che toglie a Maria corredentrice ogni sentimento naturale e le fa rivolgere al Padre le seguenti parole: "Voi lo condannate, anch’io lo condanno. Sì, muoia il mio Figlio sopra la Croce [...], purché voi siate soddisfatto ed ubbidito, e gli uomini salvi: Crucifige, crucifige eum".


A. Brogli, Regina dei Martiri – LEV, Lianie lauretane.

Al contrario di questa corrente stoica, quella apocrifo-popolare opera un’eccessiva umanizzazione di Maria. Come ha mostrato l’antropologo E. De Martino, di fronte alla morte di un parente, fin dall’antichità, la donna reagisce in due modi: con il parossismo, che consiste in urla, lamenti, percussione del petto e graffi del volto, e con l’attassamento o stato di ebetudine stuporosa e "di immobilità fisica che riflette un vero e proprio blocco psichico più o meno accentuato".

Proprio queste due reazioni del cordoglio funebre sono attribuite a Maria dagli apocrifi della Passione, che la vedono come una donna che affronta la crisi della morte del Figlio con lo svenimento e con l’esplosione parossistica. Secondo gli Atti di Pilato, un apocrifo ascrivibile al V secolo, Maria si comporta come una comune madre che piange il proprio figlio.

Giunge anzi a svenire e cadere per terra alla vista del Figlio flagellato, ad elevare un lamento e a graffiarsi il volto: "Come non piangerò, o figlio mio? Come non lacererò con le unghie il mio volto? [...] è questa la spada che ora trafigge l’anima mia. Chi farà cessare le mie lacrime, o figlio mio dolcissimo? Certamente nessuno, se non tu solo, risorgendo dopo tre giorni, come hai detto".

Questa linea interpretativa si esprime sia nell’arte medievale, che raffigura Maria svenuta ai piedi della Croce oppure mentre urla e si lamenta (vedi il Pianto delle Marie, di Nicolò dell’Arca), sia nella liturgia che giunge a celebrare la festa dello Spasimo di Maria, rigettato con motivi teologici dal Cardinale Caietano.


A. Brogli, Regina dei Confessori della fede – LEV, Litanie lauretane.

Maria modello del pianto del cristiano

Generalmente la Chiesa batte una via intermedia: esclude il parossismo e l’attassamento e attribuisce a Maria una sofferenza profonda, esternata in un pianto sommesso. è la linea seguita dallo Stabat Mater, in cui l’interiore patire della Vergine "si ravviva e si umanizza in un contemplare velato di lacrime".

Il pianto di Maria non è disperato, non solo perché sa che il Figlio muore per la salvezza degli uomini, ma pure perché crede nella promessa della risurrezione.

Maria diviene così il modello del pianto del cristiano, un paradigma particolarmente efficace per cristianizzare il cordoglio funebre. Da San Giovanni Crisostomo a San Luca di Bova ritorna la polemica contro il perdurare del costume pagano del cordoglio funebre. Più che prediche e canoni occorreva un modello con funzione trasfiguratrice del lamento rituale.

Il grande strumento pedagogico del nuovo ethos cristiano di fronte alla morte fu la figura della Mater dolorosa, così integralmente umana nel suo dolore per il Figlio morto, e tuttavia così interiore e raccolta nel suo silenzioso ‘stare’ velato di lacrime davanti alla Croce.

Dobbiamo evitare di vedere Maria solo di fronte ai fedeli; è necessario vederla in relazione a Dio. La Madre di Gesù è particolarmente adatta a esprimere il dolore del Padre, poiché ella ha generato nel tempo senza concorso di un padre quello stesso Figlio che il Padre ha generato nell’eternità senza il concorso di una madre. Senza dubbio, chi si avvicina di più alla sofferenza del Padre celeste è la Madre terrena che piange lo stesso Figlio sottoposto alla Croce e al sepolcro.

Non solo qualche cattolico, ma perfino un teologo evangelico come Moltmann scorge nella Pietà l’icona della compassione del Padre: "Spesso l’elemento femminile del dolore di Dio è stato raffigurato nell’immagine della Pietà, della Madre affranta con il Figlio morto in grembo. Ma il dolore di Maria non è forse il riflesso umano e l’inizio della partecipazione cristiana alla pena che il Padre divino prova per la morte del Figlio?".

La sofferenza di maria e le sue lacrime rivelano il pathos del Padre, nel cui cuore compassionevole ormeggia misteriosamente la sofferenza di Cristo e della Chiesa, la passione di Cristo, l’abisso di dolore fisico, morale e spirituale da lui sofferto e offerto al Padre per la salvezza degli uomini, e i gemiti inenarrabili dello Spirito (Rm 8, 26) che fanno tutt’uno con i gemiti della creazione (Rm 8, 22-23) fino a che la figliolanza divina si manifesterà in essa.

Stefano De Fiores

http://www.stpauls.it/madre03/0306md/0306md04.htm

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