DON ANTONIO

giovedì 29 dicembre 2011

Salmo 70. Divo Barsotti.

Vieni a salvarmi, o Dio,
vieni presto, Signore, in mio aiuto.
Siano confusi e arrossiscano
quanti attentano alla mia vita.
Retrocedano e siano svergognati
quanti vogliono la mia rovina.
Per la vergogna si volgano indietro
quelli che mi deridono.
Gioia e allegrezza grande
per quelli che ti cercano;
dicano sempre: «Dio è grande»
quelli che amano la tua salvezza.
Ma io sono povero e infelice,
vieni presto, mio Dio;
tu sei mio aiuto e mio salvatore;
Signore, non tardare.
Vieni presto, Signore, in mio aiuto

Il Salmo è uno dei più semplici e anche letterariamente dei più poveri. Non ha nulla che richiama particolarmente l'attenzione nei confronti degli altri Salmi; ma appunto per questo dice uno dei motivi fondamentali di tutto il Salterio. La preghiera sorge dall'angoscia, dalla pena. La condizione dell'uomo quaggiù, stando al Salterio, è una condizione di sofferenza, di miseria, di povertà. L'esperienza umana sembra non essere altro che dolore. È la vita con tutti i suoi casi, che infierisce sugli uomini. E gli uomini invece di rendere meno duro il pesante il fardello di questa pena, lo gravano perché non vi è amore in questa umanità di cui il salmista rende testimonianza. L'uomo si sente solo, come soffocato da ogni parte, e si sente solo e perseguitato da tutti: dalla vita, dagli avvenimenti, dalla storia, dalla creazione soffre violenza e gli uomini ugualmente li sono nemici.
Ecco donde sorge, dunque, la preghiera: da una esperienza la più dolorosa, la più tagliente, della solitudine nostra quaggiù. L'unico col quale veramente l'uomo entra in comunione, in questa inimicizia degli elementi e degli uomini, e Dio: a questa comunione lo forzano appunto la tristezza, la malattia e la persecuzione. Incalzato dalla sua pena e dalla sua sofferenza, l'uomo non trova altra apertura che nell'altro. E la sua anima si apre a Dio nell'invocazione, nella implorazione dolorosa, nella preghiera. Mi sembra che questo sia l'insegnamento fondamentale di tutto il Salterio. Il Salterio è la preghiera della Chiesa, è la preghiera del cristiano. Sembra non dirci fondamentalmente altro che questo: la vita dell'uomo è pena ed è sofferenza, l'uomo non può trovare sollievo altro che rivolgendosi a Dio. In verità debbo dire che io sono stato tentato di credere che anche il Salterio fosse ben limitato nei suoi temi, che in fondo questo maiuscoli fra le Salterio che tanto esaltiamo non dicesse che una cosa, non svelasse che uno degli atteggiamenti propri dell'uomo: come facciamo a trovare tutta la vita umana, tutta la storia degli uomini in questi brevi canti che sono un fastidioso ripetersi di lamenti? Veramente fastidioso perché poi, oltre tutto, non fanno che ripetersi. Com'è che si può dire che il Salterio sia un grande libro di preghiera? L'uomo sembra che non sappia liberarsi della sua pena, non fa che assaporarla e forse anche esagerarla per ottenere più facilmente l'aiuto di Dio. Così ero tentato di credere, poi mi sono detto che non potevo essere io a giudicare il Salterio, era anzi il Salterio che giudicava me; non posso io giudicare la parola di Dio, è la parola di Dio che giudica me. Il Salterio ci dice veramente quella che è la condizione dell'uomo, quella condizione che l'uomo molto spesso cerca di nascondere anche a se stesso o di cui non si accorge a causa della sua superficialità. La condizione dell'uomo quaggiù! Ma è spaventosa! È veramente tragica se Dio non è con noi. Tutti i contenuti che il mondo ci può offrire, non parlo delle cose cattive, parlo delle cose più alte, non sono che un palliativo per questo senso di solitudine che l'uomo prova, per questo senso della fragilità mostruosa e terribile dell'essere suo. Non abbiamo davanti che la morte e non viviamo nel momento presente che estranei a tutto, mentre tutto è estraneo a noi.
Veramente il peso della vita ci dovrebbe schiacciare se noi non avessimo la possibilità di trasformare l'angoscia in preghiera. Ed è proprio questo che fa il Salterio: trasforma la pena umana, così universale, in una preghiera universale. È l'unica cosa, direi, che fondamentalmente ci insegna il Salterio. Si può dire, ed è stato anche detto, che è il cristianesimo, in fondo, che è triste, che ci richiama alla meditazione della nostra povertà. Per uno che non fosse religioso, che non fosse cristiano, sarebbe facile liberarsi da questa esperienza e superarla nell'oblio; ma il superamento, se pure è possibile, della nostra sofferenza nell'oblio e nella dimenticanza non sarebbe una più spaventosa miseria per noi? Possiamo noi indurci a vivere una vita di tre giorni senza sentire questo incombere del mistero della morte sulla nostra vita fuggitiva? Possiamo noi non avvertire nell'intimo dell'anima nostra che siamo creati per cose più grandi di quelle che noi non sappiamo definire, che non troviamo quaggiù, onde costantemente e in ogni cosa proviamo l'amarezza della delusione? delusione anche nelle cose più grandi, anzi tanto più dolorosa quanto più le cose sono grandi. Il salmista probabilmente era deluso proprio da Dio, deluso dal modo onde il Signore governava la nazione, onde guidava i suoi passi. Da sua vita individuale, la vita nazionale, non era una gran delusione se egli doveva credere nell'elezione di Dio?
Non ci rimane che la preghiera. E cosa ancora più terribile è questa: che alla preghiera sembra che nessuno risponda; il Salterio infatti non è che questo lamento. Non è un lamento cui segue poi immediatamente la risposta divina! No, la preghiera e speranza.
È certo sicurezza di esaudimento, ma l'esaudimento nel Salterio non c'è: una preghiera di lamento succede a una preghiera di lamento e questa ad un'altra preghiera di lamento. Sono tutte suppliche e tutti lamenti, l'anima rimane costantemente fino alla morte in questo appello alla divina bontà, in questa implorazione alla divina misericordia, e Dio sembra ascoltarla soltanto sostenendo la sua speranza fino all'ultimo giorno, facendo sì che essa non debba precipitare nello scoraggiamento e nell'avvilimento interiore a motivo di questa sua pena che ogni giorno diviene sempre più pesante e più grave. Quanto più l'anima va davvero avanti nel suo cammino anche umano, quanto più cioè essa vive una vita umanamente più intensa, tanto più sperimenta anche la propria estraneità a tutte le cose e agli uomini stessi.
La mostruosa fragilità dell'essere solo! Che cosa noi siamo? Oh! Vivere davvero come uomini vorrebbe dire pregare! Cerchiamo di vivere davvero come uomini, cerchiamo di renderci conto davvero di quello che è la nostra vita e di assaporare fino all'ultimo tutta la sua amarezza, tutta la tremenda sua pena. Saremo sforzati anche noi, necessariamente a trasformare questa pena in preghiera, in implorazione che sale a Dio. Ed è già una cosa mirabile questa. Lasciamo da parte che Dio ci esaudisca o no - è già una cosa immensa questa! Che noi da questo abisso di miseria e di povertà possiamo rivolgerci a Dio, non è già una cosa grande? Non è già una cosa immensa che, mentre tutto si chiude alla nostra parola, Uno invece ci ascolta, ed è il Signore, Dio immenso.
Si parla della preghiera: è possibile davvero questa preghiera? E che cos'è questa preghiera? È una cosa così straordinaria! Pensare che noi si può parlare a Dio, pensare che Dio ci ascolta! Ebbene, tutta la nostra vita, se veramente noi la viviamo con intensità, con sincerità, non può non divenire preghiera. Non potrebbe l'uomo accettare la sua vita, non potrebbe viverla, se non la trasformasse in preghiera. Ed ecco anche perché penso che anche coloro che negano Dio non potrebbero rifiutarsi di pregare, non potrebbero non pregare. Quando l'anima soffre (e l'anima umana sempre soffre) non può accettare questa sofferenza, né viverla, che trasformandola in una implorazione a Uno che ascolta.

Vieni a salvarmi, o Dio,
vieni presto, Signore, in mio aiuto.
Siano confusi e arrossiscano
quanti attentano alla mia vita.
Retrocedano e siano svergognati
quanti vogliono la mia rovina.

Il Salmo è semplicissimo: è un grido di aiuto, ed è questa la preghiera. L'unica cosa che mi sembra si dovesse notare è che il primo versetto non soltanto è usato dalla Chiesa all'inizio di ogni ora canonica: "Deus in audiutorium meum intende, Domine ad adiuvandum me festina", ma era precisamente questa la continua preghiera dei Padri del deserto, secondo Cassiano. E questo vuol dire che questo grido è veramente il grido che esprime più di ogni altra parola la necessità che ha l'anima del soccorso divino, dell'aiuto di Dio. Però mi sembra che sia più adatta al cristiano quella che poi è divenuta la formula della preghiera continua nell'Oriente, perché nel nostro caso è soltanto un'invocazione a Dio, ma questo Dio non è ancora Cristo Signore; non è ancora esplicito il mistero di una redenzione divina che Dio compiuto nel Cristo. Il soccorso che Dio ci porta si compie nella discesa del Cristo verso di noi, in questa presenza di Gesù che è nostro Salvatore, sicché ci sembra migliore oggi la formula della continua preghiera che è propria dell'Oriente e che anche noi abbiamo fatto nostra: "Signore Gesù Cristo Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore". Questa preghiera dice da una parte tutta la miseria dell'uomo e il bisogno che ha l'uomo di una grazia divina, di un aiuto di Dio, dall'altra dice in che modo Gesù veramente risponde alla nostra preghiera, in che modo Egli ci soccorre attraverso il mistero del Cristo. Mi sembra che da quando si è detto questo, in fondo, si è detto tutto riguardo a questo Salmo, che non ha bisogno di un grande commento; è una semplice invocazione di aiuto, una invocazione certo veramente viva, una invocazione che nasce da un sentimento profondo della propria miseria e del proprio bisogno. Quello che deve essere l'atteggiamento dell'orante, qui è espresso in modo chiarissimo, ma non è che questo Salmo contenga delle particolari verità, tranne questa: la miseria dell'uomo, la grandezza di Dio, la sua volontà di soccorrerci, la necessità che questo soccorso sia pronto, immediato, perché immediato per l'uomo e il pericolo di una rovina.

© Divo Barsotti

http://www.figlididio.it/salmi/70.html

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