DON ANTONIO

sabato 17 dicembre 2011

Una pagina da meditare. LA CROCE






IL VALORE SALVIFICO DELLA SOFFERENZA (SALVIFICI DOLORIS)
E LA SOFFERENZA ESERCIZIO DELLA SPERANZA (SPE SALVI)


Mons. Alessandro Greco
Premessa
La sofferenza è, forse, il problema che maggiormente assilla la vita dell’uomo. Lo ha ben stigmatizzato Giovanni Paolo II: «Il dolore accompagna l’uomo ad ogni grado della longitudine e della latitudine geografica: esso, in un certo senso, coesiste con lui nel mondo e perciò esige di essere costantemente ripreso» . L’uomo pone molte domande e cerca risposte circa la propria origine e la propria destinazione, circa il senso della vita e della morte, ma le domande più insistenti le pone circa il dolore e il suo significato perché è ciò che più mortifica la condizione umana e, nello stesso tempo, lo vede impegnato, con tutte le sue forze, nel tentativo di superare tale limite. Anche il Concilio Ecumenico Vaticano II aveva affrontato la questione: «… di fronte all’evoluzione attuale del mondo, diventano sempre più numerosi quelli che si pongono o sentono con nuova acutezza gli interrogativi capitali: Cos’è l’uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della morte che, malgrado ogni progresso, continuano a sussistere? Cosa valgono queste conquiste a così caro prezzo raggiunte? Che reca l’uomo alla società e cosa può attendersi da essa? Cosa ci sarà dopo questa vita?». Il mondo della sofferenza ha aspetti non ancora totalmente conosciuti. Si sa, infatti, che l’uomo non soffre solo fisicamente, ma anche in altri modi circa i quali la medicina non può ancora molto.
A volte si parla di malattia e si pensa immediatamente alla condizione di malessere fisico; a volte si parla di sofferenza che investe un ambito più ampio, è molto radicata nell’uomo e interessa sia la sfera fisica che la sfera morale se si considera la sua corporeità e la sua spiritualità; ambedue le dimensioni sono il soggetto della sofferenza: è l’intera persona umana a portarne il peso. Dunque, quando si parla di sofferenza fisica si pensa al corpo; quando si parla di sofferenza morale, si parla di dolore dell’anima.
Quello della sofferenza umana è un mondo a sé che sembra essere in dispersione; in realtà ha una sua compattezza. Infatti, coloro che soffrono si sentono accomunati mediante l’analogia della situazione che vivono insieme attraverso il bisogno di solidarietà reciproca, il bisogno d’affetto, di premure, di comprensione o attraverso quello che donano e ricevono con la parola, l’entusiasmo, la forza di volontà, la fede.

Quello che sembra un mondo in dispersione, nello stesso tempo rivela un forte senso di solidarietà e di comunione, forse perché quelli che credono di essere sani non riescono a capire fino in fondo il dramma della sofferenza umana. Qualcuno ricorderà il saluto di Giovanni Paolo II a tutti i malati con i quali ha condiviso più volte l’esperienza del dolore. Questo senso di solidarietà lo manifestò all’Angelus del 6 ottobre 1996: la sera di quello stesso giorno sarebbe stato accompagnato in ospedale per un altro intervento chirurgico.
1 GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica Salvifici doloris (=SD), 2: EV 9/ 621.2 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Gaudium et spes 10: EV 1/1350. 3 Cf SD 5: EV 9/ 624. Salvifici Doloris
L’11 febbraio 1984, S. S. Giovanni Paolo II, di venerata memoria, promulga la Lettera Apostolica Salvifici doloris sul senso cristiano della sofferenza umana. Si tratta di un piccolo trattato sul tema della sofferenza dal punto di vista biblico, teologico, pastorale. Affronta la complessa problematica nella sua fenomenologia, offre valide e convincenti risposte sul valore cristiano della sofferenza alla luce del mistero di Cristo, con proposte operative in linea con il Vangelo e con le legittime aspirazioni dell’uomo. Oltre ad una introduzione e ad una conclusione, la Lettera Apostolica è scandita in sei capitoli:
1. Il mondo dell’umana sofferenza
2. Alla ricerca della risposta all’interrogativo sul senso della sofferenza
3. Gesù Cristo: la sofferenza vinta dall’amore
4. Partecipi delle sofferenze di Cristo
5. Il Vangelo della sofferenza
6. Il buon samaritano.
Nel mistero salvifico di Cristo la sofferenza dell’umanità trova il suo significato più pieno, nella misura in cui si coglie un nesso strettissimo, una comunione piena tra Cristo e il cristiano, tra Cristo e la Chiesa. Non è nostro intento analizzare l’intera Lettera apostolica, ma riprendere solo alcuni contenuti tenendo conto della finalità del presente contributo.
Cristo il Servo sofferente
Il dolore è contrario al bene e alla natura dell’uomo. Il tempo presente è un tempo di prova e di fedeltà a Dio, senza che si possa realizzare un superamento totale e radicale del male e della sofferenza, cosa che è da attendersi solo nell’eternità, sia per l’anima che per il corpo. Se ci si domanda cosa sia il dolore, perché il dolore, donde venga, quale il suo significato e il suo valore, la risposta è solo quella cristiana: Dio è nostro Padre e solo nel suo amore è possibile capirne il mistero.

Fuori dal Cristianesimo, la cultura, la filosofia, le grandi religioni si sono interrogate, riconducendo la risposta sostanzialmente ad un insopprimibile senso di ribellione e di disprezzo per la miserevole condizione dell’uomo. Tale risposta è fallimentare perché il dolore è strutturale, non può essere eliminato totalmente e radicalmente; pertanto, l’unica via possibile è vincerlo e valorizzarlo con l’amore.
L’uomo non pone solo a sé stesso o agli altri gli interrogativi circa la sofferenza, ma anche a Dio e, quando non trova immediata, esplicita e favorevole risposta, entra in conflitto con lui, giungendo, qualche volta, anche alla sua negazione. Il Getsemani, l’agonia e la morte di Gesù sulla croce, la tomba vuota della Risurrezione sono il segno più forte dell’amore di Dio per l’uomo. In Gesù Cristo si può capire che il dolore è una grazia: «…perché a voi è stata concessa la grazia non solo di credere in Gesù Cristo, ma anche di soffrire per lui, sostenendo la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e che ora sentite dire che io sostengo» (Fil 1, 29-30). Il dolore ha anche le sue gioie: «Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12, 10; cf At 5, 41).
Il dolore accettato dal Figlio di Dio, innocente e santo, ha un valore infinito, puro: è vero amore divino. Se da una parte, l’uomo, la vita, il creato riconducono alla grandezza e alla bontà di Dio, la sofferenza e il male mettono in ombra la sua immagine, soprattutto di fronte al dolore senza colpa, di fronte al dolore degli innocenti o di fronte a responsabilità impunite. Tutto ciò evidenzia quanto sia importante porsi l’interrogativo sul senso della sofferenza. Essa trova la sua spiegazione più piena nel mistero d’amore di Cristo, in modo particolare nel mistero della croce.
La visione della sofferenza, alla luce del mistero salvifico di Cristo, esige una risposta di fede matura ed un atto di umiltà per comprendere il suo valore nell’economia della salvezza. Nell’enciclica Evangelium vitae si legge che sull’albero della croce si compie il vangelo della vita. Nell’albero della croce è la soluzione del mistero della vita e della sofferenza. Si può immaginare la scena del venerdì santo: di fronte alla morte di Cristo, il centurione lo riconosce veramente come Figlio di Dio (cf Mc 15,39). Nel momento della debolezza e dell’umiliazione più grande (kšnwsij), si rivela la vera identità di Cristo: sulla croce si manifesta la sua gloria (dÒxa).
Con la sua morte egli illumina il senso della vita e della morte di ogni uomo. Durante tutta la sua esistenza compie tanti miracoli, guarisce i malati, risuscita i morti; tutto è segno di un’altra salvezza e di un’altra vita: il perdono dei peccati, cioè la liberazione dell’uomo dalla malattia più profonda e la restituzione della vita secondo lo Spirito. Tale esperienza è strettamente legata alla fede nel Figlio di Dio; a Lui crocifisso guarderanno le genti (cf Gv 19,37).

E, proprio attraverso la croce (sofferenza e morte), Gesù Cristo ha compiuto la redenzione; avrebbe potuto farlo in altri modi, ma ha scelto il mezzo più duro e più umiliante che l’uomo non riesce a capire e, di conseguenza, ad accettare: «Chi vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9, 23); «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto» (Gv 12, 24); «Non vi è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13).
Sono gli annunci di Gesù prima dell’offerta della sua vita. S. Agostino, parlando della conoscenza di Dio, afferma che anche se l’uomo impegnasse la propria intelligenza e le altre facoltà per raggiungerlo, troverebbe difficoltà e avrebbe bisogno di essere sostenuto, perché sarebbe simile a colui che vede la patria da lontano, con il mare in mezzo, vede cioè dove arrivare, ma non sa come arrivare: «Così è di noi che vogliamo giungere a quella stabilità dove ciò che è è, perché esso solo è sempre così com’è. E anche se scorgiamo già la meta da raggiungere, tuttavia, di mezzo, c’è il mare di questo secolo… Ora, affinché avessimo anche il mezzo per andare, è venuto di là Colui al quale noi si voleva andare. E che ha fatto? Ci ha procurato il legno con cui attraversare il mare. Nessuno, infatti, può attraversare il mare di questo secolo, se non è portato dalla croce di Cristo. Anche se uno ha gli occhi malati, può attaccarsi al legno della croce. E chi non riesce a vedere da lontano la meta del suo cammino, non abbandoni la croce, e la croce lo porterà». Il legno della croce di cui parla S. Agostino è innanzitutto lo strumento della passione usato da Gesù per salvarci e, in secondo luogo, è il segno delle debolezze, dei dolori e delle sofferenze dell’uomo che Dio ha preso su di sé, facendosi uomo nel mistero dell’Incarnazione.
6 Cf SD 9-10: EV 9/631-633.
7 Cf SD 12-13: EV 9/ 635-636; TOMMASO D’AQUINO, La Somma Teologica, IIIa, qq. 46-50, V, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1996, 411-467.
8 Cf GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Evangelium vitae 50-51: EV 14/2332-2340; interessante è anche leggere H.U.VON BALTHASAR,
Teologia dei tre giorni. Mysterium Paschale, a cura di G. Francesconi, Queriniana, Brescia 20004.
Cf AGOSTINO, Commento al Vangelo di Giovanni, trad. e note di E. Gandolfo, I, Città Nuova, Roma 1968, 27.
La croce va intesa come umiltà in senso pieno.
Il grande filosofo e teologo così continua: «Essi non vollero aggrapparsi all’umiltà di Cristo, cioè a quella nave che poteva condurli sicuri al porto intravisto. La croce apparve, ai loro occhi, spregevole. Devi attraversare il mare e disprezzi la nave? Superba sapienza! Irridi a Cristo crocifisso ed è lui che hai visto da lontano: ‘In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio’. Ma perché è stato crocifisso? Perché ti era necessario il legno della sua umiltà. Infatti ti eri gonfiato di superbia ed eri stato cacciato lontano dalla patria; la vita era stata interrotta dai flutti di questo secolo e non c’è altro modo di compiere la traversata e raggiungere la patria che nel lasciarti portare dal legno. Ingrato! Irridi a colui che è venuto per riportarti di là. Egli stesso si è fatto via, una via attraverso il mare. È per questo che ha voluto camminare sul mare per mostrarti che la via è attraverso il mare. Ma tu, che non puoi camminare sul mare come lui, lasciati trasportare da questo vascello, lasciati portare dal legno: credi nel Crocifisso e potrai arrivare. È per te che si è fatto crocifiggere, per insegnarti l’umiltà».
Nella Salvifici doloris, al cap. IV, -Gesù Cristo: la sofferenza vinta dall’amore -, Giovanni Paolo II descrive la prospettiva cristiana circa la sofferenza. Per comprendere il suo significato, è necessario staccarsi dal concetto di sofferenza intesa in senso fisico, per guardarla in un orizzonte più ampio e soprattutto per coglierne la soluzione nel senso fondamentale e definitivo come si nota nel colloquio tra Gesù e Nicodemo: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 16). Dio dà il suo Figlio affinché l’uomo non muoia, ma abbia la vita eterna che, se va perduta, significa morire perché la sofferenza non è solo quella temporale e fisica, ma è soprattutto la perdita dell’eternità, la perdita di Dio stesso.
La missione di Gesù è quella di vincere il peccato e la morte alle radici: lo fa con l’offerta di sé, liberando l’uomo e aprendogli le porte della vita con la risurrezione. Anche se la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte non elimina le sofferenze umane, il suo mistero salvifico, però, getta una nuova luce su di esse: è la luce della salvezza definitiva. Durante la sua vita terrena, Gesù Cristo è stato sempre vicino al mondo dell’umana sofferenza. Quando passava facendo del bene (cf At 10, 38), la sua attenzione era soprattutto rivolta ai malati: li guariva, li consolava, era sensibile nei confronti di coloro che soffrivano sia nel corpo che nello spirito: «Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore» (Mt 9, 36); «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi ed io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi ed imparate da me che sono mite ed umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero» (Mt 11, 28-30); «Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: ‘Coraggio, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati’» (Mt 9, 2).
Inoltre, Gesù consolava tutti in ogni genere di sofferenza, come si può osservare ascoltando il messaggio delle beatitudini, ricco di speranza: «Beati i poveri in spirito… Beati coloro che piangono… Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia…» (cf Mt 5, 3-12). Non soltanto ha parlato di sofferenza e ai sofferenti, ma ne ha fatto personalmente l’esperienza, nella sua stessa carne. Per questa ragione si avvia volontariamente verso il Calvario, in piena coscienza, consapevole del valore redentivo della sua offerta, pur soffrendo da innocente. Egli, con la sua sofferenza, fa propria la domanda dell’uomo che soffre, rispondendo a tale interrogativo con la testimonianza della sua vita.
11 Cf SD 14: EV 9/637-639.
12 Cf SD 15: EV 9/640-642.
13 Cf SD 16: EV 9/643-645.
L’ultima parola di questo insegnamento è la parola della croce, come scrive S. Paolo: «La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio» (1Cor 1, 18). Molti riferimenti dei testi sacri fanno capire che Gesù ha accettato la sofferenza per la salvezza del mondo, abbandonandosi alla volontà del Padre, come nel Getsemani: «E avanzatosi un poco, si prostrò con la faccia a terra e pregava dicendo: Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt 26, 39). Questa preghiera di abbandono fiducioso, comunque, mette in evidenza il peso della sofferenza che anche Gesù sente; infatti le parole passi da me questo calice, sono le stesse che pronuncia ogni uomo di fronte alle proprie sofferenze. All’angoscia di Gesù nel Getsemani, fa eco il suo sospiro sulla croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato» (Mt 27, 46).
L’innocente diventa l’uomo dei dolori; su di lui sono caduti i peccati e le sofferenze di tutti gli uomini. Il mistero del sacrificio di Cristo, pertanto, più che come soddisfazione vicaria, è da interpretare come rappresentanza solidale circa la quale attualmente si concentra il dibattito teologico: «Le sofferenze raggiungono il culmine nella passione, ma, nello stesso tempo, entrano in una dimensione nuova, quella dell’amore. Pertanto, il bene, la grazia, la vita sono scaturiti dalla redenzione e trovano la loro ragione nel mistero della croce: La croce di Cristo è diventata una sorgente dalla quale sgorgano fiumi d’acqua viva, in essa dobbiamo riproporre anche l’interrogativo sul senso della sofferenza e leggervi sino alla fine la risposta a questo interrogativo».
Benedetto XVI: La sofferenza e l’esercizio della speranza
Un ulteriore contributo viene da Benedetto XVI che affronta il tema della sofferenza nella sua ultima enciclica - Spe salvi -e afferma che essa fa parte dell’esistenza come conseguenza del limite umano e delle colpe che si sono accumulate nella storia. La sofferenza è considerata come luogo di apprendimento della speranza e, di qualunque tipo essa sia (fisica, psicologica, sociale, ecc…), specialmente quella degli innocenti,va vinta. Alleviare la sofferenza è dovere della giustizia e dell’amore e rientra nelle esigenze fondamentali della vita. Progressi notevoli si sono registrati nella lotta contro il dolore fisico, ma sono aumentate le sofferenze psichiche. Bisogna fare il possibile per eliminarle; farlo in modo radicale non è nelle possibilità dell’uomo in quanto limitato e incapace di debellare alla radice il male e il peccato, origine della sofferenza. Solo Dio può farlo. Infatti, egli entra nella storia, assume la natura umana e soffre con l’uomo. Soltanto lui può togliere il peccato del mondo (cf Gv 1,29). Ciò ha fatto sì che nascesse la speranza della guarigione.

Benedetto XVI afferma che oggi non è possibile sradicare la sofferenza e quando l’uomo cerca di evitarla, scivola nel vuoto, in una vita senza senso.
14 Cf F. G. BRAMBILLA, «Redenti nella sua croce. Soddisfazione vicaria o rappresentanza solidale?», in G. MANCA (a cura di), La redenzione nella morte di Gesù. In dialogo con Franco Giulio Brambilla, S. Paolo, Cinisello Balsamo 2001, 15-83; C. CERAMI, «Antenna crucis: (in)attualità di un paradigma teologico», in P. CODA, M. CROCIATA (edd.), Il Crocifisso e le religioni.Compassione di Dio e sofferenza dell’uomo nelle religioni monoteiste, Città Nuova, roma 2002, 85-98.
15 SD 18: EV 9/648-650; cf J. GALOT, «Perché la croce?», in La Civiltà Cattolica 3378 (1991) 549-559; ID., «Il turbamento di Cristo di fronte all’ora della passione», in La Civiltà Cattolica 3497 (1996) 446-459; «Gesù lotta col male», EDITORIALE, in La Civiltà Cattolica 3448 (1994) 315-327; «La morte di Gesù sulla croce», EDITORIALE, in La Civiltà Cattolica 3454 (1994) 319-332; «La Risurrezione di Gesù», EDITORIALE, in La Civiltà Cattolica 3467 (1994) 425-432; A. VANHOYE, «Salvezza universale nel Cristo e validità dell’Antica Alleanza», in La Civiltà Cattolica 3467 (1994) 433-445; S. MOSCHETTI, «Redenzione e peccato negli Esercizi Spirituali di S. Ignazio», in Rassegna di Teologia XXXII, 3 (1991) 256-278; F. G. BRAMBILLA, «Redenti nella sua croce. Soddisfazione vicaria o rappresentanza solidale?», in G. MANCA (acura di), La redenzione nella morte di Gesù. In dialogo con F. G. Brambilla, cit., 15-83. Cf BENEDETTO XVI, Spe salvi, 30.11.2007, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007, nn. 35-40.
Egli non guarisce quando fugge davanti al dolore, ma, quando l’accetta, matura in esso, sentendosi in comunione con Cristo che ha offerto la sua vita con un amore senza confini. Il Papa cita un brano di una lettera del martire vietnamita Paolo Le-Bao-Thin, morto nel 1857, in cui narra il dramma della sua prigionia, ma scandisce ripetutamente: «Eterna è la sua misericordia» (Sal 136). Come il Signore ha liberato i tre giovani dalla fornace ardente, così ha liberato anche lui, trasformando le tribolazioni in dolcezza. La lettera è denominata Lettera dall’inferno, proviene da un campo di concentramento, ma, nonostante le atrocità, per lui si avvera quanto è scritto nel Salmo 139: «Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti…». La sofferenza, senza perdere la sua violenza nella vita dell’uomo, si trasforma in canto di lode, soprattutto quando si guarda a Cristo, Stella della speranza. Il modo con cui la società si rapporta con la sofferenza e con i sofferenti è il suo biglietto di presentazione. Se essa non è capace di provare compassione e se non è capace di portare e condividere le sofferenze, è una società disumana e crudele. Accettate di condividere la sofferenza degli altri esige che colui che si avvicina al sofferente, riesca a trovare in essa un senso e a considerarla come un mezzo di purificazione, di maturazione, di speranza. Provare compassione, infatti, accettare l’altro che soffre, significa fare propria la sofferenza dell’altro.

Questo dinamismo aiuta a capire che la sofferenza è pervasa dalla luce dell’amore. Accettandola per amore della verità e della giustizia è una scelta che viene prima delle comodità personali o dell’incolumità fisica. Anche il sì all’amore, scrive il Papa, diventa fonte di sofferenza perché esige di non pensare a se stessi e al proprio io, altrimenti si rimane chiusi nel proprio egoismo. L’accettazione della sofferenza per gli altri, per la verità, per la giustizia, per l’amore, diventa possibile quando si ritengono importanti sia i valori che persone. La fede cristiana ha il merito di aver suscitato nell’uomo questa capacità di soffrire, decisiva per le sorti dell’umanità in quanto ha dimostrato nella sua lunga storia che amore, verità e giustizia non sono valori astratti, ma fortemente radicati nella vita.
Il primo esempio viene da Dio che ha voluto soffrire con noi e per noi nella persona di Gesù Cristo. L’uomo ha un valore molto grande per Dio che, per soffrire con lui, si è fatto carne e sangue, come si legge nei vangeli della passione. Con tale ingresso di Dio nella vita dell’uomo, in ogni sofferenza egli è presente; in ogni sofferenza si irradia la consolazione dell’amore e nasce la speranza. Nelle piccole prove della vita ci si accontenta di poco per sentirsi sostenuti; nelle prove forti, quando cioè si tratta di decidersi per la verità e non per il proprio interesse, per la carriera ecc…, è necessario ancorarsi alla certezza della vera grande speranza. L’esempio viene dai martiri. Accettare di soffrire è prova di grande umanità, nella misura in cui in noi vi è una grande speranza sulla quale edifichiamo la nostra vita. Non manca, nelle parole del papa, anche un richiamo al valore delle piccole seccature di ogni giorno; esse, accettate con pazienza, possono avere un senso e contribuire a vivere l’esperienza dell’amore tra gli uomini.
Il cristiano e l’esperienza della sofferenza
Non basta riflettere sul mistero della redenzione compiuta da Cristo, ma è necessario accoglierlo e prendervi parte. Egli, infatti, dice: «Chi vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9, 23). Una delle esigenze più forti della sequela Christi è quella di prendere la propria croce ogni giorno e seguirlo. Prendere la croce è l’unica condizione per andare insieme a lui, seguire il suo stesso cammino e il suo stesso stile di vita. Bisogna seguirlo non solo nei momenti di gioia, come alle nozze di Cana (cf Gv 2, 1-12) o nell’ingresso a Gerusalemme (cf Mt 21, 1-11), ma anche sulla via del Calvario (cf Mt 27). Il cristiano o il discepolo è colui che assomiglia il più possibile al maestro e la somiglianza deve realizzarsi soprattutto in ciò che è più duro da imitare, ma che, nello stesso tempo, ha un grande valore redentivo (cf 1Cor 2, 18), riproduce in sé stesso Cristo e ciò che Egli ha vissuto: «Abbiate gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2, 5); «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1Cor 11, 1); «Infatti, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione» (2Cor 1, 5); «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20); «Quanto a me, invece, non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale per me il mondo è stato crocifisso, come io per il mondo» (Gal 6, 14);
«Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo» (Col 1, 24); «Ma nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché possiate anche nella rivelazione della sua gloria rallegrarvi ed esultare» (1Pt 4, 13). Cristo ha scelto la croce come strumento di redenzione, ha scelto ciò che è abbietto, umiliante, ciò che è stoltezza. In essa non solo si compie la redenzione per mezzo della sofferenza, ma la stessa sofferenza è redenta perché Cristo ha preso su di sé il male totale del peccato.
Grande il peccato, grande il prezzo pagato dal Figlio di Dio per riscattare l’umanità che è stata redenta non a prezzo di cose corruttibili, ma per mezzo del sangue prezioso di Cristo (cf 1Pt 1, 1819; Gal 1, 14; 1Cor 6, 20). Gesù muore al posto dell’uomo e a vantaggio dell’uomo il quale è chiamato a condividere tale sofferenza. Ogni uomo, pertanto, attraverso le proprie croci quotidiane, può partecipare alla sofferenza redentrice di Cristo. S. Paolo parla delle diverse sofferenze patite a causa sua e del Vangelo, mettendo in evidenza il loro valore redentivo, soprattutto se proiettate verso la risurrezione. Se l’uomo partecipa alle sofferenze di Cristo, è perché «Cristo ha aperto la sua sofferenza all’uomo ed è divenuto nello stesso tempo partecipe delle sofferenze dell’uomo». È questo il senso pieno del Mistero Pasquale a cui bisogna partecipare per superare alla radice il male e la sofferenza: «È necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio» (At 14, 22)24. Bisogna partire dalla croce che per gli uomini è insipienza, spogliazione di Cristo, ma per Dio è stata la sua elevazione; Cristo, cioè, sulla croce, ha ricevuto la più grande glorificazione e nella debolezza si è manifestata la sua potenza.
La sofferenza a cui viene sottoposta l’umanità è una prova di maturità cristiana, è una chiamata alla virtù come spirito di accettazione paziente di ciò che fa male; e l’umanità coltiva la speranza che la stessa sofferenza non la annienterà, anzi, sarà vinta dall’uomo e dalla Chiesa a cui Cristo si unisce come alla sua sposa. Così essa, sacramento universale di salvezza, continua l’opera redentrice di Cristo annunciandola con la parola e compiendola con i segni. Proprio la Chiesa è «la dimensione nella quale la sofferenza redentrice di Cristo può essere costantemente completata nella sofferenza dell’uomo» .
EV 9/665-669; cf G. ANCONA, Escatologia cristiana, Queriniana, Brescia 2003, 265-271; G. MORANDI,La sofferenza del Il buon samaritano
Spesso ci si domanda chi sia il nostro prossimo con cui condividere questo tesoro. Se lo chiedono, in particolare, coloro che vivono la loro esperienza di servizio nei luoghi della sofferenza, vicini a coloro che sono malati nell’anima e nel corpo. La risposta è data da Gesù con la parabola del buon samaritano (cf Lc 10, 29-37): per l’infelice e malcapitato della parabola, prossimo è il samaritano, cioè colui che si prende cura del debole. Pertanto prossimo è: colui che adempie il comandamento dell’amore; colui che si ferma accanto all’uomo che soffre, gli apre il cuore e prova compassione (il testo greco usa il verbo splagcn…zw); buon samaritano e prossimo è ogni uomo sensibile alla sofferenza e che si commuove per la disgrazia altrui; è colui che porta aiuto concreto in ogni occasione e per qualunque tipo di sofferenza;prossimo è colui che è capace di donarsi sinceramente e totalmente. La parabola narrata da Gesù insegna che la sofferenza è capace di far venire fuori l’amore dal cuore dell’uomo. Ogni atto compiuto in favore dell’uomo sofferente è opera del buon samaritano. Tali attività assumono forme istituzionali diverse e concrete attraverso le professioni di medico, infermiere, terapista, ricercatore, volontario. Sono molte le persone che mettono a frutto la loro intelligenza nella ricerca e nello studio, usano tempo e danaro per alleviare, con grande sensibilità e spirito di dedizione, le pene di tanti fratelli sofferenti. Anche nel volontariato vi sono segni di grande impegno; molti giovani si lasciano coinvolgere in questa esperienza di solidarietà in ogni ambiente, soprattutto negli ospedali.
Ora si aggiunge la preziosa opera dei ministri della consolazione.
È necessario che siano coinvolte le organizzazioni ecclesiali, tutti gli uomini di buona volontà, la famiglia, le comunità parrocchiali, i gruppi e i movimenti attraverso un’azione educativa all’amore per il prossimo. Ogni persona umana, con la forza della fede, deve essere per gli altri il segno di Gesù che passava per le strade della Palestina facendo del bene a tutti (cf Mt 4,23-25), con il programma messianico: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore» (Lc 4, 18-19). Questo programma viene condiviso da ogni cristiano; nel povero, nel sofferente, nell’emarginato è presente Gesù stesso: «... Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40).
discepolo in L. MAZZINGHI, E. MANICARDI, G. MORANDI, La sofferenza nella Sacra Scrittura, S. Lorenzo, Reggio Emilia 2003, 77-93; G.
MUCCI, «L’uomo e il Crocifisso. Solitudine e confidenza», in La Civiltà Cattolica 3689 (2004) 434-442.
28 Cf G. PERICO, «Il volontariato ospedaliero in Italia a 20 anni al suo inizio», in La Civiltà Cattolica 3513 (1996) 238-249.
Così la sofferenza fa sprigionare l’amore dal cuore dell’uomo. Soffrire con Cristo! Il mistero di Cristo e della croce non è chiuso e finalizzato a se stesso, ma aperto, in funzione della salvezza dell’uomo che, pertanto, si sente chiamato, accomunato, coinvolto dal mistero della redenzione.
Il magistero e la testimonianza di Giovanni Paolo
A coloro i quali si preparano al ministero della consolazione vorrei suggerire la lettura di brani scelti dai discorsi di Giovanni Paolo II pronunciati in varie circostanze durante il suo lungo pontificato. Si tratta di brani dal contenuto teologico, pervasi di grande umanità, si tratta di parole che hanno la loro credibilità nel vissuto quotidiano dello stesso pontefice.

I discorsi di Giovanni Paolo II possono aiutare sia a capire ulteriormente il valore salvifico della sofferenza, sia ad interiorizzare quella parola da comunicare a chi soffre, esercitando il ministero della consolazione.
Venerdì santo, 25 marzo 2005, per la prima volta, non partecipa alla Via Crucis, al Colosseo, ma segue il rito in preghiera, nella sua cappella privata. Il Card. Camillo Ruini, prima dell’inizio del pio esercizio, legge il seguente messaggio a nome del Santo Padre:
«Carissimi fratelli e sorelle, sono spiritualmente con voi al Colosseo, un luogo che evoca in me tanti ricordi ed emozioni, per compiere il suggestivo rito della Via Crucis, in questa sera del Venerdì Santo. Mi unisco a voi nell’invocazione così densa di significato: ‘Adoramus Te, Christe, et benedicimus tibi, quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum’. Sì, adoriamo e benediciamo il mistero della croce del Figlio di Dio, perché è proprio da quella morte che è scaturita una nuova speranza per l’umanità. L’adorazione della croce ci rimanda ad un impegno al quale non possiamo sottrarci: la missione che san Paolo esprimeva con le parole “completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa”(Col 1,24). Offro anch’io le mie sofferenze, perché il disegno di Dio si compia e la sua parola cammini fra le genti. Sono a mia volta vicino a quanti, in questo momento, sono provati dalla sofferenza. Prego per ciascuno di loro. In questo giorno memoriale del Cristo crocifisso guardo e adoro con voi la croce e ripeto le parole della liturgia: “O crux, ave spes unica!”. Ave, o croce, unica speranza, donaci pazienza e coraggio e ottieni al mondo la pace! Con questi sentimenti, benedico voi e quanti partecipano a questa Via Crucis mediante la radio o la televisione».
Nella Giornata Mondiale dei malati di lebbra, il 28.1. 1990, a Cumula (Guinea Bissau), dopo aver parlato della lebbra e delle condizioni fisiche e morali di coloro che ne sono colpiti, così dice: «… il mio pensiero si rivolge con profondo affetto a tutti coloro che, in ogni parte del mondo, vivono nella propria carne il dramma della lebbra… Amati fratelli che soffrite questa dolorosa infermità, non cessi la vostra preghiera al Signore e non si spenga mai la speranza. Dallo scrigno prezioso della vostra sofferenza scaturisce, se saprete accettarla con fiducioso abbandono in Dio e speranza nella Vergine Maria, una sorgente di grazia per la Chiesa e per l’umanità».
Nella visita in Burundi, il 7.9.1990, da Bujumbura rivolge il suo messaggio a quelle comunità: «… Innanzitutto vorrei dire con grande affetto quanto vi auguro di essere confortati nelle vostre sofferenze e di guarire nella misura in cui umanamente è possibile. Prego Dio perché vi conceda una salute migliore nel corpo e la pace dell’anima. Cari malati, nella società e nella Chiesa, avete pienamente il vostro posto. La vostra esperienza della sofferenza e della debolezza non vi rende inutili. Al contrario, voi vi trovate di fronte ai problemi più seri che un uomo conosce, e il vostro modo di viverli può insegnare molto a coloro che godono di buona salute. So quanto è difficile parlare di malattia. E, tuttavia, so che nel profondo di voi stessi, comprendete che, nel cammino della vita, è un passaggio inevitabile, una fase difficile che dobbiamo un giorno attraversare… La malattia è una prova, vale a dire un momento difficile in cui il corpo è sminuito e in cui è difficile sperare… So che il passaggio è duro… ma voglio dirvi, in nome della fede che avete motivo di sperare e che non siete soli nella prova».
Durante la visita all’Ospedale Principe Reggente Carlo a Bujumbura il 7.9.1990, dice: «Ho voluto venire un momento tra voi, perché i malati hanno un posto privilegiato nel mio cuore. Vorrei portarvi un po’ di conforto. Siatene certi: per la Chiesa e per l’intera comunità umana, voi siete fratelli e sorelle molto amati… Noi vi amiamo come siete in questo momento, più fragili nel portare il segreto della vostra sofferenza… Ciò che desidero dirvi è che non siete abbandonati da Dio. Io vengo qui nel nome di Gesù».
Nella basilica mariana di Danzica (Polonia), il 12.6.1987, rivolge ai malati un grande messaggio nel quale sottolinea l’opera terapeutica di Gesù, riflettendo sul servo del centurione: «Io verrò e lo curerò» (Mt 8,7). Gesù, però, non è soltanto colui che cura e guarisce, ma anche colui che dice: «Ero malato e mi avete visitato» (Mt 25,36). Nel Vangelo non si parla di Gesù ammalato nel letto del dolore, ma si parla di lui al culmine della sofferenza, tra tante torture nell’anima e nel corpo, fino alla morte. La Chiesa nasce dal mistero della Redenzione nella croce di Cristo; per questo deve cercare di incontrare l’uomo, in modo particolare sulla via della sofferenza.
Colui che soffre «è chiamato a partecipare a quella sofferenza mediante la quale si è compiuta la Redenzione…. In quanto l’uomo partecipa della sofferenza di Cristo – in qualsiasi luogo del mondo e tempo della storia – in tanto egli completa a suo modo la sofferenza mediante la quale Cristo ha operato la Redenzione del mondo». Il Signore, con la sua personale esperienza, ha riscattato il dolore rendendolo salvifico: «Anche a voi, miei cari ammalati che partecipate alle sofferenze redentrici di Cristo, rivolgo il mio saluto e la mia parola di conforto. Ricordatevi sempre che il Signore ha riscattato il dolore rendendolo salvifico e che, quindi, nessuna lacrima è versata invano e nessun grido si perde nel vuoto. Ma tutto può servire per la redenzione dell’uomo, se vissuto in questa prospettiva soprannaturale. Coraggio, abbiate fiducia: il Signore conta molto su di voi. Vi benedico tutti con profondo affetto».
Questo messaggio ritorna in Piazza S. Pietro il 6.4.1988. Ai malati parla così: «Diletti fratelli e sorelle, guardate a voi stessi e alle vostre sofferenze alla luce di Cristo risorto, per mezzo del quale è potentemente entrata nel mondo la misericordia divina. Questo vi permetterà di vedere nel dolore la partecipazione alla croce e, nei patimenti, le primizie della Risurrezione di Cristo, il Testimone fedele».

Il 24.1.1999, agli infermi ricoverati nell’Ospedale Regionale A. Lopez Mateos di Città del Messico rivolge questa parole: «…L’uomo è chiamato alla gioia e ad una vita felice, ma sperimenta quotidianamente molte forme di dolore e la malattia è l’espressione più frequente e più comune della sofferenza umana. Dinanzi a ciò viene spontaneo chiedersi: Perché soffriamo? Per che cosa soffriamo? Ha un significato che le persone soffrano? Può essere positiva l'esperienza del dolore fisico o morale? Senza dubbio, ognuno di noi si sarà posto, più di una volta, questi interrogativi, dal letto del dolore, durante la convalescenza, prima di sottoporsi ad un intervento chirurgico o quando ha visto soffrire una persona cara. Per i cristiani non sono interrogativi senza risposta. Il dolore è un mistero, molte volte imperscrutabile alla ragione . Fa parte della persona umana che si chiarisce solo in Gesù Cristo che svela all’uomo la propria identità. Solo a partire da Lui potremo scoprire il senso del dolore umano» .
All’Ospedale pediatrico di Olsztyn (Polonia), il 6.6.1991, si rivolge a loro con un riferimento al Vangelo e precisamente all’amore di Gesù per i piccoli: «Lasciate che i bambini vengano a me» (Mc 10,14). Poi dice così: «Sono lieto di poter essere oggi per un attimo con voi. Quest’incontro ha luogo in ospedale. Certamente avrei preferito averlo, per esempio, durante una gita o in un piazzale di giochi. Però c’è bisogno anche di questo luogo. Ne hanno bisogno gli adulti, ma a volte ne hanno bisogno anche i bambini. Sapete bene che all’ospedale si viene per la salute, per riacquistare la salute, per liberarsi da diverse malattie… Amati bambini, molto cordialmente prego per la salute di ognuno – specialmente per coloro che sono malati gravemente – però ancora di più chiedo il dono della fede. Chiedo questo dono per ognuno di voi ora e per tutta la vita. E chiedo questo dono, insieme a voi, per i vostri cari. Lo chiedo per tutti gli uomini. Chiedetelo anche voi. Il Signore Gesù ascolta in modo particolare le vostre preghiere».
La sofferenza fonte di comunione Di grande efficacia è il messaggio agli anziani e ai malati nella Basilica di Santo Stefano a Budapest (Ungheria), il 20.8.1991, nel suo primo viaggio pastorale in quella terra. L’idea di fondo è il pensiero di S. Paolo: «Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri» (Rm 12,4-5). «… Ma in questo impegno non si è mai soli, non lo si è neppure per un istante. Sta accanto a noi il Padre che ci tiene per mano ed effonde generosamente in noi il suo Santo Spirito, per farci crescere nella consapevolezza di essere figli. Proprio mediante l’esperienza della nostra fragilità siamo portati a scoprire la presenza amorosa di Dio e a gridare il nostro dolore verso Colui che solo può donarci il vero sollievo. La sofferenza diventa così scuola di preghiera sentita, insistente e fiduciosa. Colui che soffre cercando di fare la volontà di Dio è utile al prossimo. Anche se impedito nell’attività esterna, anche se isolato nella solitudine, egli irradia intorno a sé un’onda di luce spirituale a cui molti altri possono attingere… Molte persone, di fronte a questi credenti anziani e sofferenti, hanno capito che la fede, quando non è semplice abitudine sentimentale,
ma sincera persuasione, diventa sorgente inesauribile di forza e di consolazione; hanno intuito quanto sia bello e desiderabile poter considerare Gesù come amico onnipotente e tenero, dal quale tutta la vita riceve sostegno e significato. In una parola, molti sono stati condotti verso la fede da chi quotidianamente traeva dalla propria fede la forza per fare della malattia la cattedra di una testimonianza tanto più convincente quanto più silenziosa. Ma anche se nessuno si accorgesse e nessuno accettasse in modo esplicito la testimonianza del sofferente, il suo dolore sarebbe ugualmente utile e prezioso per l’efficacia misteriosa, ma reale che esso esercita nell’ottenere la grazia che salva» .
La passione per i giovani
Parlare di sofferenza e della sua valorizzazione per il bene della Chiesa, per la conversione dei peccatori, per l’evangelizzazione, può essere comprensibile, ma riesce difficile parlare di sofferenza e nello stesso tempo parlare di gioia. Eppure, il Papa, ai giovani portatori di handicap, durante l’incontro nella chiesa del Seminario Maggiore di Santiago di Compostela, il 19.8.1989, mette in evidenza questo aspetto insolito della sofferenza. I giovani lì riuniti, nel suo pensiero, sono al centro dell’attenzione ecclesiale perché la sofferenza li rende in modo speciale uniti al Signore; anzi essi sono Cristo vivente nel mondo perché l’uomo sofferente è via della Chiesa perché egli è anzitutto via di Cristo stesso. Il Papa a quei giovani si rivolge con queste parole: «A motivo della vostra malattia, non soltanto siete privilegiati agli occhi di Dio, ma siete coloro che più possono chiedere e far sì che la gioventù del mondo incontri Gesù Cristo, Via Verità e Vita. In un tempo in cui la croce è nascosta, voi, accettandola, siete testimoni che Gesù Cristo ha voluto abbracciarla per la nostra salvezza. Giovani malati e invalidi! Proprio nel periodo più bello della vita, in cui il vigore e il dinamismo costituiscono una caratteristica tipica dell’uomo, voi vi trovate fragili e senza le forze necessarie per compiere tante attività, così come è dato di fare a tanti ragazzi e ragazze della vostra età. Infatti tanti vostri coetanei sono venuti oggi, camminando fino al Monte del Gozo (Monte della Gioia) dove ci riuniremo questo pomeriggio. Voi non siete in condizione di camminare, ma – lasciatecelo dire con un paradosso – siete giunti prima di tutti al Monte della Gioia. Sì, perché il Calvario, dove Gesù è morto e risorto e dove voi siete con Lui, è, guardato con gli occhi della fede, il Monte della Gioia, la collina dell’allegria perfetta, la vetta della speranza». Poi il Papa fa un riferimento alla sua esperienza personale, alla sua vita di malato: «Anche io conosco – perché l’ho provata nella mia persona – la sofferenza che causa la limitazione fisica, la debolezza propria della malattia, la mancanza di energia per il lavoro, il non sentirsi in forma per svolgere una vita normale. Ma so anche – e vorrei farvelo comprendere – che quella sofferenza ha anche un altro aspetto, sublime: dà una grande capacità spirituale, perché la sofferenza è purificazione per sé e per gli altri e, se viene vissuta nella dimensione cristiana, può trasformarsi in dono offerto per ‘completare nella propria carne quello che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo corpo che è la Chiesa’ (Col 1,24)”.

Per questo la sofferenza abilita alla santità, dato che racchiude grandi possibilità apostoliche ed ha un valore salvifico eccezionale quando è unita alle sofferenze di Cristo». Il Papa, come ha tante volte egli stesso affermato, è avanti negli anni. Il suo cuore, però è giovane, cerca i giovani, sa stare con loro e sa parlare al loro cuore. Essi lo sentono vicino, lo sostengono, lo ascoltano, costituiscono la sua speranza, la speranza della Chiesa e del mondo.
Il 5.4.2001, si rivolge a loro così:
«Prendere il largo significa rifiutare quanto di negativo vi viene offerto e porre la vostra creatività e il vostro entusiasmo al servizio di Cristo… Carissimi giovani,non abbiate paura e non sentitevi soli. Vi è vicino il Papa. Soprattutto vi è vicino Gesù che per primo ha obbedito alla volontà del Padre e si è lasciato inchiodare per redimere il mondo. La via della croce è la strada che egli ci propone. Non temete, giovani sentinelle di quest’alba del nuovo millennio, di assumervi le vostre responsabilità missionarie che derivano dal vostro battesimo e dalla vostra cresima. Se il Signore poi vi chiama a seguirlo più da vicino nel sacerdozio o in uno stato di speciale consacrazione, seguitelo con generosità».
Ai medici, agli operatori sanitari, ai volontari…
Alla Cittadella della Carità in Taranto, il 28.10.1989, nella storica visita, dice:
«Colgo l’occasione per estendere la mia esortazione anche a coloro che, nelle strutture sanitarie pubbliche, sono a servizio dei malati e conoscono l’arte di curare e di guarire: sappiano essi esercitare anche l’arte di consolare e confortare. Nella società odierna si un po’ tutti tentati dalla fretta e dall’individualismo; occorre reagire, specialmente quando davanti a noi c’è un fratello reso debole dall’età o dalla malattia. Grazie alla formazione etica e professionale, l’operatore sanitario deve affinarsi spiritualmente, nella convinzione che non la scienza, ma la carità trasforma il mondo, secondo la lezione di quel medico del Sud, Giuseppe Moscati, che io stesso ho avuto la gioia di iscrivere nell’Albo dei Santi due anni fa» .
All’Ospedale di Ferrara, il 23.9.1990:
«Il mio pensiero va, poi, a quanti prestano la loro opera per la cura ed il sollievo dei degenti; ammiro, cari fratelli e sorelle, la vostra dedizione e vi sono grato per quanto fate a favore dei pazienti a voi affidati. Invoco, inoltre, il Signore affinché la vostra instancabile attività, sempre sostenuta da generosa disponibilità, sia coronata da frutti consolanti. Il compito che siete chiamati a svolgere in questo ospedale è una missione a servizio dell’uomo. Vostro modello si il buon samaritano: il medico, l’infermiere, l’operatore sanitario e il volontario sono chiamati ad imitare il gesto del generoso soccorritore, tratteggiato nella parabola evangelica e a porsi, come lui, al fianco di chi soffre. L’insegnamento di Gesù vi illumini nel vostro quotidiano impegno e vi stimoli ad agire sempre con la dovuta preparazione scientifica e con retta coscienza per servire la vita che è sacra e la cui difesa, dal suo nascere fino alla morte naturale, forma il vanto della vera scienza medica. Davanti ai vostri occhi e nelle vostre mani voi avete una persona con la sua dignità e con i suoi diritti: essa porta scolpita in sé l’immagine di Dio Creatore (Gen 1,27)… Il rapporto malato-medico diventa, in tal modo, sempre più un incontro tra due fratelli».
Emozionante è il discorso all’U.N.I.T.A.L.S.I. nel 90° della sua fondazione, tenuto il 27.11. 1993:
«Nell’U.N.I.T.A.L.S.I. si incontrano, raccolti in spirituale sintonia di intenti e di impegno apostolico, medici, infermieri, operatori sanitari, sacerdoti e pellegrini, tutti desiderosi di mettere in pratica quel senso di accoglienza che costituisce un valido presidio di autentici valori umani, quali la dignità della vita, la solidarietà e la condivisione, il primato di Dio nell’esistenza… Dedicatevi a tale forma di apostolato con premurosa sollecitudine. Alimentatela con intensi momenti di preghiera, crescete nella fede grazie ad una sistematica catechesi, in modo tale che il servizio da voi offerto, sia come volontari che come malati, diventi una fertile scuola di conversione, di rinnovamento spirituale, di autentica e credibile testimonianza cristiana».
La risurrezione meta ultima del sofferente
L’itinerario fin qui tracciato, sarebbe incompleto se non si guardasse alla risurrezione del Figlio di Dio. Allo stesso modo, mi sembrerebbe incompleta e forse fuori dal pensiero e dalla testimonianza di Cristo, una Via Crucis che si concludesse con la XIV stazione. Ciò significherebbe considerare la sofferenza come un valore assoluto e non un mezzo. Giovanni Paolo II scrive: «La pasqua di Cristo comprende, con la passione e la morte, anche la sua risurrezione. E’ quanto ricorda l’acclamazione del popolo dopo la consacrazione: ‘Proclamiamo la tua risurrezione’. In effetti il sacrificio eucaristico rende presente non solo il mistero della passione e della morte del Salvatore, ma anche il mistero della risurrezione, in cui il sacrificio trova il suo coronamento. E in quanto vivente e risorto che Cristo può farsi nell’Eucaristia ‘pane della vita’ (Gv 6,35-48), ‘pane vivo’ (Gv 6,51). Sant’Ambrogio lo ricordava ai neofiti, come applicazione alla loro vita dell’evento della risurrezione: ‘Se oggi Cristo è tuo, egli risorge per te ogni giorno. San Cirillo d’Alessandria a sua volta sottolineava che la partecipazione ai santi Misteri è una vera confessione e memoria che il Signore è morto ed è tornato alla vita per noi e a nostro favore». La sofferenza e la croce non sono un valore assoluto perché Dio è amore, gioia, libertà, vita; Gesù Cristo non è venuto al mondo per morire e rimanere nella morte, ma per sconfiggere la morte e aprire, mediante la risurrezione, le porte della vita. Egli ha preso su di sé tutto ciò che è dell’uomo, tranne il peccato, per trasformarlo in vita: «Il Signore, pur essendo Dio, si fece uomo e soffrì per chi soffre, fu prigioniero per il prigioniero, condannato per il colpevole e, sepolto per chi è sepolto, risuscitò dai morti e gridò questa grande parola: ‘Chi è colui che mi condannerà? Si avvicini a me’(Is 50,8)”. Io, dice, sono Cristo che ho distrutto la morte, che ho vinto il nemico, che ho messo sotto i piedi l’inferno, che ho imbrigliato il forte e ho elevato l’uomo alle sublimità del cielo; io, dice, sono il Cristo.

Venite, dunque, o genti tutte oppresse dai peccati e ricevete il perdono. Sono io, infatti, il vostro perdono, io la pasqua di redenzione, il l’Agnello immolato per voi, io il vostro lavacro, io la vostra vita, io la vostra risurrezione, io la vostra luce, io la vostra salvezza, io il vostro re. Io vi porto in alto nei cieli. Io vi risusciterò e vi farò vedere il Padre che è nei cieli. Io vi innalzerò con la mia destra». La sofferenza, allora, è un mezzo, il mezzo scelto da Gesù per giungere alla vetta della gloria: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno» (Gv 11,25-26).
Tutto il suo cammino è scandito dalla sofferenza.
Gerusalemme, verso la quale si dirige, è la città della passione e della morte, ma, nello stesso tempo, la città della risurrezione e della gloria, della vittoria sulla sofferenza, sul male, sulla morte. Il chicco di grano non viene sotterrato per morire, per rimanere senza vita, ma per marcire per dare origine alla vita. Gesù non è rimasto per sempre nella tomba. Essa non è la sua meta ultima, nè la morte è l’ultimo atto della sua vita: «… Ma l’angelo disse alle donne: ‘Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. E’ risorto, come aveva detto; venite a vedere il luogo dove era deposto. Presto, andate adire ai suoi discepoli: ‘E’ risuscitato dai morti, e ora vi precede in Galilea; là lo vedrete. Ecco, io ve l’ho detto’. Abbandonato in fretta il sepolcro, con timore e gioia grande, le donne andarono a dare l’annunzio ai suoi discepoli» (Mt 28,5-8). Si può essere certi che la vocazione del cristiano non è finalizzata alla sofferenza, ma alla gioia, alla vita. A lui si deve proporre un cammino che abbia come meta un ideale radioso, anche se per poterlo raggiungere è necessario soffrire, morire a se stessi, fare rinunce, accettare le pene quotidiane. Ad ogni persona umana, in particolare a colui che soffre per scelta o per necessità, bisogna infondere speranza, comunicare gioia; bisogna evangelizzare la sofferenza, proponendo di viverla come mezzo di redenzione.
L’esperienza insegna che per godere è necessario passare attraverso sofferenze e sacrifici. Se, nell’orizzonte umano, si vuole raggiungere una meta (costruire una casa, portare a compimento gli studi, realizzare un progetto, avviare un’attività commerciale, raggiungere traguardi nello sport…) è d’obbligo passare attraverso il sacrificio. Quanto si soffre per raggiungere tali mete! Ma poi, la gioia è incontenibile: «La donna quando partorisce è afflitta perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo» (Gv 16,21). A colui che soffre bisogna parlare del valore del dolore umano e sostenerlo affinché sia meno duro. Con tutti i mezzi leciti bisogna recare sollievo perché chi soffre goda buona salute, sia in pace, viva nella prosperità i suoi giorni. Egli, infatti, non è un condannato alla sofferenza perenne, ma è chiamato a superare la sua condizione di degente; se non è possibile, bisogna chiedere a Dio la forza di accettare e portare quella croce. E molte volte non è possibile liberarsi totalmente della sofferenza.

L’insegnamento di Giovanni Paolo II è illuminante:
«La croce di Cristo getta in modo tanto penetrante la luce salvifica sulla vita dell’uomo e, in particolare, sulla sua sofferenza, perché mediante la fede lo raggiunge insieme con la risurrezione: Il mistero della passione è racchiuso nel Mistero pasquale. I testimoni della passione di Cristo sono contemporaneamente testimoni della sua risurrezione… L’apostolo (Paolo) prima sperimentò la ‘potenza della risurrezione’ di Cristo sulla via di Damasco, e solo in seguito, in questa luce pasquale, giunse a quella ‘partecipazione alle sue sofferenze’, della quale parla, ad esempio, nella lettere ai Galati. La via di Paolo è chiaramente pasquale: la partecipazione alla croce di Cristo avviene attraverso l’esperienza del Risorto, dunque attraverso una speciale partecipazione alla risurrezione. Perciò, anche nelle espressioni dell’Apostolo sul tema della sofferenza appare così spesso il motivo della gloria, alla quale la croce di Cristo dà inizio: I testimoni della croce e della risurrezione erano convinti che è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio».
Il pensiero del Santo Padre è suggerito dallo stesso apostolo Paolo che così scrive ai Tessalonicesi: «Dobbiamo sempre ringraziare Dio per voi, fratelli, ed è ben giusto. La vostra fede infatti cresce rigogliosamente e abbonda la vostra carità vicendevole; così noi possiamo gloriarci di voi nelle Chiese di Dio, per la vostra fermezza e per la vostra fede in tutte le persecuzioni e tribolazioni che sopportate. Questo è un segno del giusto giudizio di Dio, che vi proclamerà degni di quel regno di Dio, per il quale ora soffrite» (2Ts 1,3-5). E’ molto chiara la prospettiva ampia della proposta di Gesù, della riflessione dell’apostolo Paolo, delle considerazioni di Giovanni Paolo II: il superamento delle prove, della croce e di ogni genere di sofferenza non può essere attuato nell’orizzonte storico, immanente, ma trascendente. La tensione escatologica aiuta a proiettarsi verso il Regno: «Così dunque la partecipazione alle sofferenze di Cristo è, al tempo stesso, sofferenza per il Regno di Dio. Agli occhi del Dio giusto, di fronte al suo giudizio, quanti partecipano alle sofferenze di Cristo diventano degni di questo regno. Mediante le loro sofferenze essi, in un certo senso, restituiscono l’infinito prezzo della passione e della morte di Cristo, che divenne il prezzo della nostra redenzione: a questo prezzo il regno di Dio è stato nuovamente consolidato nella storia dell’uomo, divenendo la prospettiva definitiva della sua esistenza terrena. Cristo ci ha introdotti in questo Regno mediante la sua sofferenza. E anche mediante la sofferenza maturano per esso gli uomini avvolti dal mistero della redenzione di Cristo». Mi rendo ben conto che si tratta di una visione da accogliere nell’ottica della fede. Nulla si può spiegare, su nulla si può indagare con la sola forza della ragione, né con l’aiuto della scienza.

Su questo tema diventa difficile, anzi impossibile il dialogo con il mondo. Solo chi crede si lascia condurre da Cristo per le strade umanamente impervie e incomprensibili della croce.
Vorrei concludere così:
«Alla prospettiva del regno di Dio è unita la speranza di quella gloria, il cui inizio si trova nella croce di Cristo. La risurrezione ha rivelato questa gloria – la gloria escatologica – che nella croce di Cristo era completamente offuscata dall’immensità della sofferenza. Coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo sono anche chiamati, mediante le loro proprie sofferenze, a prendere parte alla gloria»; «Il motivo della sofferenza e della gloria ha la sua caratteristica strettamente evangelica che si chiarisce mediante il riferimento alla croce e alla risurrezione. La risurrezione è diventata prima di tutto la manifestazione della gloria che corrisponde all’elevazione di Cristo per mezzo della croce. Se, infatti, la croce è stata agli occhi degli uomini lo spogliamento di Cristo, nello stesso tempo essa è stata agli occhi di Dio la sua elevazione. Sulla croce Cristo ha raggiunto in tutta pienezza la sua missione: compiendo la volontà del Padre, realizzò insieme se stesso. Nelle debolezza manifestò la sua potenza, e nell’umiliazione tutta la sua grandezza messianica…
La risurrezione di Cristo ha rivelato la gloria del secolo futuro e, contemporaneamente ha confermato il vanto della croce: quella gloria che è contenuta nella sofferenza stessa di Cristo, e quale molte volte si è rispecchiata e si rispecchia nelle sofferenze dell’uomo, come espressione della sua spirituale grandezza. Bisogna dare testimonianza di questa gloria non solo ai martiri della fede, ma anche a numerosi altri uomini, che a volte, pur senza le fede in Cristo, soffrono e danno la vita per la verità e per una giusta causa: Nelle sofferenze di tutti costoro viene confermata in modo particolare la grande dignità dell’uomo». L’ultima parola non è della croce o della morte. Il messaggio ritorna con frequenza nelle catechesi, negli insegnamenti in varie circostanze, nelle encicliche, nei discorsi ai malati e ai sofferenti nel corpo e nell’anima. Lo dimostra la seguente preghiera nella quale esalta la Croce che guida alla gloriosa Risurrezione:
«O trionfante Croce di Cristo,
ispiraci a continuare
il compito di evangelizzazione!
O gloriosa Croce di Cristo,
dacci la forza di proclamare
e di vivere il Vangelo della salvezza!
O vittoriosa Croce di Cristo,
nostra unica speranza,
guidaci alla gioia
e alla pace della Risurrezione
e della vita eterna!
Amen».
Conclusione
1. All’uomo che soffre, bisogna far sentire affetto, calore umano. Il Papa lo ha fatto con la parola, la presenza, le espressioni di tenerezza che comunicano fiducia, speranza, coraggio nella lotta per vincere il dolore. Egli stesso ha dato l’esempio nel saper accettare la propria le dure prove della vita con umiltà e pazienza: l’attentato, gli interventi chirurgici, la degenza in ospedale, i mali dell’età, insieme alle sofferenze che gli sono venute da ogni parte del mondo per le ingiustizie, la miseria, gli sfruttamenti, la violenza, le guerre. Ha saputo vivere nello spirito delle beatitudini e sull’esempio di Cristo, il suo calvario, fino alla fine, fino alla morte.
2. La croce è lo strumento con il quale Cristo ha redento il mondo. Essa ha un senso, una sua logica, ma per colui che non crede è stoltezza e follia. Se egli ha scelto quella via, è segno che è l’unica percorribile anche dall’uomo per realizzare la sua vita e la sua vocazione. Per questa ragione gli ammalati sono prediletti perché nelle pene hanno una ricchezza sorprendente per la salvezza propria e del mondo.
3. La sofferenza crea una catena di solidarietà e di fraternità, genera sentimenti umani di grande nobiltà, coinvolge, crea un ambiente di ascolto e di silenzio, aiuta a ritrovare la fede, smuove anche i cuori più duri e fa venir fuori tesori nascosti anche dalle persone distratte, assenti, in apparenza insensibili.
4. La sofferenza è un tesoro prezioso da vivere, da valorizzare e da offrire per l’evangelizzazione, per la missione ad gentes, per la Chiesa, per le vocazioni, per la conversione dei peccatori, per la giustizia, per la pace. Soprattutto nel mese di ottobre, dedicato alla missione: oltre alla settimana della preghiera, della carità, delle vocazioni e del ringraziamento, vi è la settimana della sofferenza, un’opportuna occasione per essere vicini a coloro che soffrono, aiutandoli ad offrire le loro pene quotidiane per la missione, le missioni, i missionari, le giovani chiese e i loro catechisti, i volontari. Ma è anche una provvidenziale occasione per parlare del valore salvifico della sofferenza e per educare i battezzati a viverla con questo spirito. Cristo ha offerto se stesso affinché gli uomini abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (cf Gv 10,10), perché lo conoscano, lo amino, si salvino e giungano alla conoscenza della verità (cf 1Tm 2,4). E continua ad offrirsi in tutti coloro che sono visitati dalle prove.
Un ultimo pensiero di Giovanni Paolo II:
«Dove si innalza la croce sorge il segno il segno che vi è giunta, ormai, la Buona Novella
della salvezza dell’uomo mediante l’amore. Là dove si innalza la croce, v’è il segno che iniziata l’evangelizzazione. Un tempo i nostri padri innalzavano, in vari luoghi della Terra Polacca, la croce come segno che già vi era arrivato il Vangelo, che s’era iniziata l’evangelizzazione, la quale doveva protrarsi fino ad oggi. Con questo pensiero è stata innalzata la prima croce in Mogia, nei pressi di Cracovia. Perché questa croce è la suprema potenza e sapienza di Dio? La risposta è una sola: perché nella croce si è manifestato l’amore». Giovanni Paolo II ha innalzato la Croce, la sua croce, come emblema della sua vita e del suo ministero; l’ha innalzata soprattutto nel momento conclusivo della sua esistenza terrena, quando, crocifisso con Cristo nel suo letto di dolore, si è consegnato al Padre, il 2 aprile 2005.
53 A. MONTONATI (a cura di), Giovanni Paolo II, parole sull’uomo, Fabbri – Corriere della Sera, Milano 1995, 136-137.

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