DON ANTONIO

lunedì 31 ottobre 2011

Omelia domenica XXXI anno B

La parola di Dio di questa domenica è un richiamo a noi cristiani fin dalla nascita con il Battesimo.
Forse, durante la nostra vita, abbiamo mancato di coerenza e forse la nostra incoerenza ha facilitato l’allontanamento di tanti dalla fede e dalla Chiesa. Questa constatazione e questo ammonimento ci vengono dalle letture dobbiamo prendere coscienza del nostro possibile e attuale fariseismo,prendere coscienza della nostra ipocrisia e falsità per incominciare una vita cristiana nuova,coerente radicalmente al Vangelo di Gesù. Oggi più che mai il mondo e la Chiesa hanno bisogno di cristiani santi che vivono nella santità della vita e delle opere, che vivono nella trasparenza dell’operato, che hanno come modello fondamentale il Cristo e come stile di vita il Vangelo.

La prima lettura ci ricorda la preghiera che gli ebrei recitano due volte al giorno, una preghiera che si richiama al brano del Deuteronomio che abbiamo ascoltato nella prima lettura:
“Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo.
Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze.
Questi precetti che oggi ti dò, ti stiano fissi nel cuore;
li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai.
Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi
e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte.
Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà: Che significano queste istruzioni, queste leggi e queste norme che il Signore nostro Dio vi ha date?
tu risponderai a tuo figlio: Eravamo schiavi e il Signore ci fece uscire con mano potente”.
L’amore esclusivo a Dio e l’amore di oblatività al prossimo è una risposta di amore all’amore che Dio ci ha fatto vedere e toccare con mano nella Crocifissione e Risurrezione del suo Figlio,un amore che si rivela nel dono ,più importante, la fede che si evidenzia nella speranza.

Gesù nel Vangelo si richiama a questo brano e ricorda questa preghiera dello Shemà: “ascolta Israele”. Gesù ,alla giusta e saggia risposta dello scriba, aggiunge: “non sei lontano dal regno di Dio”, un regno fondato sull’amore di una totale donazione al fratello. non solo amare il prossimo come come se stessi, ma amare il nemico, anche colui che ti sta facendo del male. Non è la negazione dei precetti dell’A.T. ma il superamento in una dimensione impraticabile e impossibile all’uomo, come abbiamo sentito anche nella solennità di tutti i Santi.

La parola di Dio della prima lettura e questa del vangelo, le possiamo applicare a noi tutti:preti e laici.
Tutti abbiamo bisogno di essere più autentici e veri..
Uno dei gravi peccati di alcuni cristiani, oggi, è proprio quello del distacco, cioè si constata in alcuni un grande distacco, un grande divario tra la fede che pubblicamente si professa e la vita che si vive, tra i segni croce che si fanno in chiesa e le mancate strette di mano che non si fanno fuori Chiesa,un divario tra la comunione Eucaristica che si riceve in chiesa e la divisone che si riscontra poi nella realtà quotidiana ,il divario tra canti, parole e preghiere di amore e il comportamento della vita di tutti i giorni.
E’ questo lo scandalo che acuni stanno palesando, è questa la grande incoerenza che toglie credibilità alla nostra professione di fede. Il Signore ci domanda di essere fedeli a Lui nonostante tutto.
Il mondo pagano nei primi tempi della Chiesa ha avuto l’esempio dei martiri per le fede in Gesù,cristiani che per essere fedeli a Gesù accettavano inimmaginabili sacrifici fino al dono della vita. Mettevano in pratica la parola di Gesù:” chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me.” Oggi l’annuncio del Vangelo,della buona notizia che Gesù è il Salvatore dell’uomo, troverà ancora ascolto e disponibilità se troverà una conferma credibile nella vita di testimonianza dei cristiani.

sabato 29 ottobre 2011

IL PROBLEMA TEOLOGICO DEGLI ATTRIBUTI DIVINI (II):DIO E LA SOFFERENZA UMANA. di José M. Galván

Sommario: I. Introduzione — II. Onnipotenza metafisica e senso del dolore — III. L’onnipotenza personale — IV. L’amore onnipotente: dimensione trinitaria — V. La misericordia onnipotente: dimensione cristica — VI. Dimensioni ecclesiali dell’onnipotenza: liberazione ed espiazione.
I. Introduzione.
II. Et quia pro eius amore sanguinem suum fuderunt, ideo cum Christo exultant sine fine.
Queste parole, dall’antifona d’ingresso del Comune dei Martiri, manifestano con cruda chiarezza uno dei radicali paradossi della Rivelazione cristiana: la sofferenza —e non soltanto la morte in quanto tale— si trova in una relazione causale con l’avverarsi di un’esultanza senza fine: la comunione vitale cum Christo, possibile in questa terra soltanto tramite lo Spirito —pro eius amore
—, da l’ultima chiave interpretativa del problema del dolore.
Questo riferimento a Cristo e allo Spirito, tuttavia, non si dà soltanto come dimensione categoriale della risposta credente: si trova nella stessa costituzione creaturale dell’essere umano, fatto a immagine e somiglianza di Dio. La liturgia della Chiesa, infatti, sembra così indicarlo quando, in riferimento alla sofferenza dei Santi Innocenti, in cui nessuna dimensione categoriale di incontro con Cristo si è data, manifesta che tamquam agni exultaverunt, magnificantes te, Domine, qui liberasti eos (Officium lectionis, antifona prima). Si è portati a ritenere, quindi, come richiesto anche dalla verità di fede dell’accesso naturale dell’uomo a Dio, che la risposta rivelata al problema del dolore non dipende soltanto da una struttura di senso metastorica acquisibile unicamente nella fede soprannaturale, anche se da questa istanza ne riceve la pienezza di risposta: l’uomo può trovare in se stesso e nella sua esperienza creaturale una spinta verso quella risposta.
In altre parole, una volta che nella fede l’uomo si è aperto alla conoscenza del gratuito Amore lenitivo, dovrebbe essere anche in grado di scoprire che quella richiesta di fede non gli avviene «contro» la sua esperienza intramondana ma che, in qualche senso, anche da questa —e in concreto, dalla sua negatività— scaturisce la convenienza di credere. Passaggio questo ovviamente non automatico, ma che non può essere negato se non vogliamo escludere l’essere nel mondo dal perché del credere.
Ci troviamo davanti a un’altra espressione del paradosso antropologico: continuando il riferimento ai Santi Innocenti, è innanzi tutto vero che il lamento e il pianto di Rachele includono un qualcosa di irreversibile, un rifiuto di ogni consolazione (cfr. Mt 2,18; Ger 31,15). L’essere limitato non può trovare nell’essere altrettanto limitato che lo circonda, la soluzione al limite svelato dalla realtà della sofferenza. Soltanto il Signore può dire: «trattieni la voce dal pianto, i tuoi occhi dal versare lacrime, perché c’è un compenso per le tue pene» (Ger 31,16). Volendo mantenere comunque l’istanza intramondana che precede il passaggio alla fede lenitiva, non essendo possibile per l’uomo desumerla dalla cornice intrastorica in cui si muove, egli deve rivolgersi all’ambito della sua trascendenza: ossia, all’ambito del suo accesso naturale a Dio.
1 Si tratta di una istanza che non si desume unicamente dall’insegnamento biblico: la sofferenza come via di apertura dell’uomo verso la trascendenza è molto presente nella cultura mitica e in quella classica. Troviamo un’espressione privilegiata di questa tensione, di palese sapore classico, nell’opera poetica di Friedrich Hölderlin: «Wir sind nichts; was wir suchen ist alles», Frammento di Ipperione, Il Melangolo, Genova 1989, p. 58. Sulle condizioni di possibilità di questo passaggio, il filosofo Leonardo Polo, la cui antropologia trascendentale fornisce una solida base filosofica a quest’argomento, si esprime così: «Los clásicos —ni ingenuos ni infantiles— eran perfectamente coscientes de que entre la realidad empírica — lo que se constata de hecho— y los altos ideales hay una distancia muy difícil de colmar: no la negaron nunca (…) Siempre admitieron que la optimación del hombre —o sea, la aventura de alcanzar, partiendo de la situación empirica constatable Riassumendo: in concomitanza con la fede cristologica che offre una serenante risposta al problema della sofferenza, l’uomo deve avere una possibilità di concettualizzazione dell’essere divino che gli permetta di strutturare come «antropologica» quella risposta. Da qui la necessità di mettere in correlazione la questione del senso della sofferenza con il problema teologico degli attributi divini. In questa linea, e mantenendoci ancora sulle dimensioni generiche della questione, si può dire che la concettualizzazione specifica di Dio nei confronti della sofferenza è racchiusa nell’idea della misericordia divina. Come ricordava Giovanni Paolo II nella sua seconda enciclica trinitaria, in riferimento al Padre Dives in misericordia, «conviene ora volgerci a quel mistero: lo suggeriscono molteplici esperienze della Chiesa e dell’uomo contemporaneo; lo esigono anche le invocazioni di tanti cuori umani, le loro sofferenze e speranze, le loro angosce e attese». L’idea di misericordia è comunque fondamentalmente dipendente dalla rivelazione biblica. In ambito teologico si dovrebbe cercare di stabilire il collegamento tra questa categoria e il momento razionale e riflesso dell’ascolto della fede, includendo necessariamente il riferimento alle diverse proprietà tramite le quali l’essere divino può essere conosciuto dalla nostra finitezza. In questo lavoro, muovendo dalla constatazione del dolore umano, si cercherà di collegare l’idea del Dio misericordioso, chiave ultima di interpretazione del tema della sofferenza, con l’attributo metafisico dell’onnipotenza; il riferimento alla morte e alla colpa porterà ulteriormente ad altri attributi, come l’eternità e l’immutabilità, senza l’intenzione di fare una presentazione neanche lontanamente sistematica delle proprietà divine. Questa restrizione dell’ambito di partenza corrisponde fondamentalmente a due idee previe: in primo luogo, la convinzione dell’essere probabilmente l’onnipotenza il primo degli attributi divini; in secondo luogo, la convenienza metodologica —visto che si parte di una richiesta creaturale— di puntare su un attributo che, anche se potrebbe essere raggiunto come caratteristica estatica dell’essere assoluto, sembra dire fondamentalmente riferimento all’agire divino manifestato nella creazione.
III. Onnipotenza metafisica e senso del dolore.
IV. (llena de quiebras, de debilidades, de todos los defectos que se quiera), una comunicación con el Absoluto— es empresa ardua: pero no imposible, no utópica; tiene sentido, a pesar de que cuando uno contempla lo inmediato muchas veces podría desanimarse al apreciar entre el ideal humano y lo inmediato un desnivel fabuloso que exige, para ser salvado, una áspera lucha. En rigor, lo exige todo», L. Polo, Presente y futuro del hombre, Rialp, Madrid 1993, p. 97.
2 Cfr. J.M. GALVAN, Il problema teologico degli attributi divini(I): considerazioni metodologiche, in «Annales theologici» (1994) 285-313, di cui questo articolo è continuazione.
3Litt.enc. Dives in Misericordia, 30-XI-1980, n. 1. Cfr. anche Ibid. n. 3, per quanto riguarda la dimensione cristologica della rivelazione dell’amore misericordioso: «Gesù, soprattutto con il suo stile di vita e con le sue azioni, ha rivelato come nel mondo in cui viviamo è presente l’amore, l’amore operante, l’amore che si rivolge all’uomo ed abbraccia tutto ciò che forma la sua umanità. Tale amore si fa particolarmente notare nel contatto con la sofferenza, l’ingiustizia, la povertà, a contatto con tutta la “condizione umana” storica, che in vari modo manifesta la limitatezza e la fragilità dell’uomo, sia fisica che morale.
Appunto il modo e l’ambito, in cui si manifesta l’amore, viene denominato nel linguaggio biblico “misericordia”»; e, finalmente, in riferimento alla missione della Chiesa, «...conservando sempre nel cuore l’eloquenza di queste ispirate parole, ed applicandole alle esperienze e alle sofferenze proprie della grande famiglia umana, occorre che la Chiesa del nostro tempo prenda più profonda e particolare coscienza della necessità di render testimonianza alla misericordia di Dio» Ibid. n. 12.
4 Questo sia per quanto riguarda l’espressione credente, appropriata alla Prima Persona della Trinità —«Credo in Dio Padre onnipotente...»—, sia per quanto fa riferimento alla più fondamentale delle richieste che lo spirito umano pone nella sua apertura alla divinità nell’ambito della religiosità naturale, cercando di riempire in essa la sua ricerca di senso e fondamento.
5 Così sembra anche indicarlo, in un testo a cui fa riferimento implicito questo lavoro, ilCatechismo della Chiesa Cattolica, n. 268: «Noi crediamo che tale onnipotenza è universale, perché Dio, che tutto ha creato, tutto governa e tutto può; amante, perché Dio è nostro Padre; misteriosa, perché la fede soltanto la può riconoscere allorché “si manifesta nella debolezza” (2Cor 12,9)» La prima constatazione sulla realtà del dolore è il suo carattere indesiderabile e universale: l’uomo lo rifiuta e, nello stesso tempo, sa di non essere in grado di evitarlo: in qualche senso, si tratta di una condizione della sua situazione creaturale finita . Il dolore costituisce una delle dimensioni in cui l’essere umano sperimenta con maggiore chiarezza la sua trascendenza sulle leggi del creato materiale: tutte le minacce che sperimenta non soltanto non riescono a cancellare il valore dell’esistenza umana, ma lo sottolineano con maggior vigore7. Il dolore, in quanto violazione delle leggi che costituiscono l’universo personale, fa prendere di conseguenza coscienza all’uomo della sua radicale impotenza davanti a sé e al cosmo, che si esperimenta come limitazione indesiderabile: qualcosa che, in definitiva, non doveva esistere.
In fine, la realtà del dolore viene esperimentata in una radicale individualità: non si può conoscere pienamente il dolore di un altro uomo o dare a conoscere il proprio: non c’è un logos esterno del dolore. Questo aspetto della sofferenza contraddice anche radicalmente la tendenza naturale dell’uomo alla comunione con i suoi simili: nella sofferenza, paradossalmente, si acuisce questa necessità degli altri, proprio nel momento in cui è palese l’impossibilità di farli partecipi del proprio dolore. Il passaggio dall’individualità alla soggettività (inter-soggettività) sembra fatalmente compromesso . Davanti a queste realtà —e non prima— ci si pone subito la questione del perché, la domanda sul senso. Quest’interrogativo, anche se non costituisce da solo l’essenza della sofferenza, è sicuramente una delle sue dimensioni fondamentali: se l’uomo riesce a dare un senso al dolore, come avviene nel cauterizzare una ferita, o in un tatuaggio, o nella mortificazione corporale, esso non è più tale in senso proprio o, in altre parole, non è più vissuto come evento angosciante, anche se si mantiene intatta la sua carica nociva somatica o psicologica. Lo stesso si potrebbe dire della sofferenza spirituale causata, per esempio, da un atto di obbedienza. A questo punto la pretesa della fede di offrire una risposta alla questione diventa antropologicamente interessante: secondo la fede, «nel piano divino ogni dolore è dolore di parto; esso contribuisce alla nascita di una nuova umanità» . Ma questa novità richiede all’uomo un’apertura teonomica, una rinuncia all’autonomia di risposta: «Egli è posto così di fronte ad un tremendo Aut-Aut: domandare a un Altro che s’affacci all’orizzonte della sua esistenza per svelarne e rendere possibile il pieno avveramento, o ritrarsi in sé, in una solitudine esistenziale in cui è negata la possibilità stessa dell’essere. Il grido di domanda, o la bestemmia: ecco ciò che gli resta!» . Si potrebbe a questo punto dire che l’attributo divino onnipotenza, come presentato dalla tradizione teologica classica, offrirebbe un primo elemento di sollievo: la confessione di un essere onnipotente costituirebbe un punto di riferimento davanti all’inevitabilità di qualsiasi situazione in cui l’uomo possa trovarsi, non ultima quella della sofferenza.
6 Non sembra necessario in questa sede far riferimento all’abbondante bibliografia generale sul dolore. Si può indicare come un adeguato punto della situazione il recente lavoro di Y. LABBÉ, La souffrance: problème ou mystère, in «Nouvelle Revue Theologique» 116 (1994) 513-529.
7 «Vulnerabile, mortale, debole, menomata per quanto oltrepassa i suoi limiti, sempre aperta al dolore, radicalmente incomprensibile, la nostra esistenza ha un suo valore, è pregevole. Sempre: anche quando la malattia ce la mostra sensibilmente lesa, minacciata di morte, smisuratamente menomata, acutamente dolorosa e addirittura disperatamente incomprensibile», P. LAIN ENTRALGO, Antropologia medica, Paoline, Cinisello Balsamo 1988, p. 236.
8 Il che non contradice il fatto che la realtà della sofferenza sia anche un elemento di solidarietà umana. In questo senso il dolore, diventando motivo di con-patimento può servire anche alla rivelazione iniziale dell’amore di comunione.
9 GIOVANNI PAOLO II, Udienza generale, 27-04-1983, in Insegnamenti VI/1, p. 1073. 10 GIOVANNI PAOLO II, Discorso al Congresso Internazionale di Teologia «Portare Cristo all’uomo», 22-02-1985, in Insegnamenti VIII/1, p. 558.
Inoltre, se all’onnipotenza si aggiunge l’idea di causalità universale (creazione) e dell’agire intellettuale dell’essere creatore, la contingenza della temporalità risulterebbe protetta dalla sensazione di essere finalisticamente abbandonata: tutto può avere un senso dal momento in cui procede da un atto intellettuale. Lo stesso concetto derivato di contingenza, nello stabilire la distinzione tra l’Essere assoluto e l’essere finito, sembra indicare —in riferimento alla dimensione “creaturale” della sofferenza—, la necessità di superare un’apparente dicotomia dialettica tra i concetti di umanità e di sofferenza; la mancanza dell’idea di contingenza potrebbe portare a vedere una contraditio radicale nell’espressione umanità sofferente. Con ciò si spezza l’ipotetica assurdità della domanda di senso davanti al problema del dolore: forse non ci sarà una risposta nel nostro orizzonte intramondano, o forse la risposta comporterà una soluzione irragiungibile, ma almeno il fatto di porsi la questione non è un controsenso, una sorta di errore ontologico. Senza una certa confessione dell’onnipotenza, l’esperienza umana del dolore non dovrebbe essere molto diversa di quella animale. Ma queste idee, anche se costituiscono una condizione di possibile risposta, creano la vera difficoltà! Appunto perché si confessa un essere creatore che potrebbe proteggere il creato dalla sofferenza, il fatto di dover soffrire si sperimenta come ingiusto. Si palesa così l’insufficienza di un’impostazione unicamente metafisica del problema: l’uomo non sarebbe in grado di sopportare l’idea di un Essere supremo che permette la sofferenza, se questo Essere ha la pretesa di manifestarsi simultaneamente come buono; molto di meno potrebbe vedere nella sofferenza una risultante finale positiva, in cui consisterebbe, in fin dei conti, la risposta al problema del senso. Sorge allora la necessità di approfondire ulteriormente il concetto di onnipotenza, se veramente si pretende una sua utilità nella soluzione al problema posto. Si tratta di superare la limitazione tendenzialmente oggettivistica che la mera considerazione ontologica dell’attributo comporta, per inserire il discorso nell’ambito di relazionalità in cui ogni possibile concettualizzazione dell’essere divino (o dell’essere umano) acquista la luce maggiore a cui il nostro intelletto, illuminato dalla fede, può arrivare. Tuttavia è bene sottolineare ancora che non si può fare a meno della fondante dimensione metafisica all’ora di dare una soluzione che comunque, se esiste, deve provenire dall’idea di Essere onnipotente, giacché senza di essa l’uomo non comincerebbe neanche a darsi da fare per vincere il dolore.
III. L’onnipotenza personale
Porre il problema del senso comporta, quindi, uscire da un ambito di riferimento limitato unicamente dall’unum dell’essere, per inserire la questione in un contesto superiore, dato dall’integrazione delle complesse interferenze che comportano l’essere personale di Dio e dell’uomo. In questa nuova sfera di riferimenti mutui risulta possibile capire il senso—ladirezione — delle traiettorie dell’uomo nella storia. Infatti, a prima vista, sembra che la risposta alla domanda di senso che il dolore pone abbia a che vedere con l’anelito dell’uomo verso la felicità. Si tratterebbe di esplicitare —se ciò è possibile — come la presenza della sofferenza sia compatibile con l’ideale della felicità umana: perché sofferenza e felicità non sono, come sembra, concetti che si autoescludono. 11 Cfr. L. POLO, La originalidad de la concepción cristiana de la existencia, in «Palabra» 54 (1970) 17-25.
12 In un recente articolo, al quale rimandiamo anche per quanto si riferisce alla dimensione metafisica dell’onnipotenza, un filosofo spagnolo sottolinea come in torno a questa apparente opposizione onnipotenza-bontà sul perno del male, alcuni teologi sembrano aver presso decisamente la via di negare l’onnipotenza, pur di salvaguardare l’amore, senza badare all’incoerenza intellettuale che questo comporta: cfr. E. ROMERALES, Omnipotencia y coherencia, in «Revista de Filosofía» (1993) 351-377 indovinata definizione esistenziale di felicità, si tratta di poter dire di sì in senso profondo a quella dimensione della vita costituita dal dolore: il che comporta costatare non soltanto la reale aspirazione alla felicità nonostante la presenza della sofferenza —un’aspirazione esperimentata come non realizzabile in assoluto non farebbe felice l’uomo—, ma anche della verificabilità delle condizioni che permettono la conciliazione. Fin dal tempo di Aristotele è chiaro che l’ideale della felicità comporta la realizzazione di comunicazioni interpersonali, fino al punto di dubitare che Dio possa essere felice, data la sua solitudine. Se Dio viene chiamato in causa come chiave ultima del problema della sofferenza, deve esserlo nella sua dimensione di apertura dialogica gratuita nei confronti dell’uomo .
La prima idea a cui dobbiamo far riferimento, pertanto, è costituita dalla realtà del carattere personale dell’agire creativo o, limitandoci al nostro argomento, dalla dimensione personale che l’onnipotenza manifesta. Questo attributo, infatti, fa riferimento in prima istanza all’agire divino ad extra: non ha molto senso esprimerlo in termini assoluti dicendo semplicemente che Dio può fare tutto, giacché, per esempio, Dio non può fare un altro Dio. Il senso preciso con cui possiamo dire
che Dio è onnipotente presuppone che Lui veramente abbia fatto; e l’agire divino costituisce il limite stesso del contenuto del concetto di onnipotenza: possiamo parlare della potenza divina soltanto in relazione a ciò che di fatto Dio ha creato, nella sua realtà attuale o possibile: Staniloae afferma che la creazione è la «kenosi volontaria dell’onnipotenza di Dio» . La manifestazione dell’onnipotenza divina consiste propriamente, quindi, nella volontarietà e nel conseguente carattere personale dell’Essere onnipotente, nel fatto che ha creato le cose che ha voluto.Non sarebbe sufficiente dire che onnipotente è colui che può fare tutto ciò che vuole, giacché senza l’attualizzazione concreta –colui che ha fatto– quest’espressione non aggiunge nulla all’idea di Ipsum esse subsistens. Un’ipotetica potenza universale impersonale non sarebbe un creatore onnipotente.
La volontà che si manifesta nell’onnipotenza personale non può essere mossa da nessuna forza esterna né può essere limitata nelle stesse sue opere da nessun tipo di condizionante interno: deve essere mossa soltanto dal bene e limitata unicamente dal suo volere. Se a questo si aggiunge che l’agire creativo dell’onnipotente personale produce a sua volta esseri personali, facendo un piccolo salto nel discorso, si può dire che l’onnipotenza creativa è rivelazione dell’amore di Dio. La creazione si struttura, quindi, non come mero rapporto Causa-effetto, ma come relazione di Persona a persona. In definitiva, l’onnipotenza personale che crea esseri a sua volta personali si deve concettualizzare —e in questo senso può chiamarsi rivelazione— come amore onnipotente. Al contrario, se l’onnipotenza non si riesce a vedere come realtà personale, non è possibile capire la creazione come rivelazione dell’amore. Si potrebbe anche concludere che un Dio-amore non avrebbe creato un mondo senza “persone”: secondo il famoso testo di Gaudium et spes 24, l’uomo «in terra è l’unica creatura che Dio abbia voluto per se stessa». Ma la logica dei concetti, collegandoci col tema di questo lavoro, comporta che una creazione-rivelazione dell’Amore deve escludere qualsiasi volontà di male nell’amato. Dio non può volere la sofferenza dell’uomo se questa deve essere interpretata come male in senso definitivo: è capibile.
13 Cfr. J. MARIAS, La felicità umana. Un impossibile necessario, Paoline, Cinisello Balsamo 1990, pp. 37-39. 14 Cfr. J. CHOZA, Manual de Antropología filosófica, Rialp, Madrid 1988, p. 523; ARISTOTELE, Etica a Nicomaco, VIII, 1 e IX, 4.9.
15 Quanto detto si può riassumere in queste parole, che nello stesso tempo servono come punto di continuazione: «L’analogia non funziona se non in un comportamento d’alleanza e il Dio dell’alleanza non è conosciuto che mediante l’atto effettivo della comunicazione, che doveva essere obbedienza e attesa. Il mistero, se difficile a pensare, di Dio creatore e che si implica in una storia, non è accessibile alla conoscenza quando la relazione viva è rotta. In effetti il pensiero, quando si tratta di Dio, è al limite delle sue possibilità; i concetti e i giudizi che esso forma non si sostengono se non per l’esperienza fedele dell’alleanza e, nella loro stessa duttilità, contribuiscono a mantenere questa in verità», G.LAFONT, Dio, il tempo e l’essere, Piemme, Casale Monferrato 1992, p. 136.

16 D. STANILOAE, Dio è Amore. Indagine storico-teologica nella prospettiva ortodossa, Città Nuova, Roma 1986, p. 93 soltanto come stadio iniziale verso realizzazioni piene, come male provvisorio da cui può scaturire un bene finale. La domanda allora è come la Rivelazione avvera questo passaggio dal male al bene. Finora resta saldo che soltanto l’interazione mutua tra l’idea di Dio-onnipotenza e l’idea di Dio-amore lascia aperta la strada verso un’ulteriore approfondimento: negare uno dei due concetti o affermarli unilateralmente comporta rinunciare a dare un senso al problema del dolore. Al contempo, però, bisogna fondare teologicamente il concetto di Dio-amore, giacché da solo non da ragione sufficiente di se stesso.
IV. L’amore onnipotente: dimensione trinitaria. Aprendoci alla Rivelazione di Dio su se stesso, l’idea biblica anticotestamentaria manifesta la realtà di una creazione fatta da un creatore onnipotente amoroso, indicando questo agire divino come fondamento del grande tema dell’Alleanza. Il dono divino della creazione, espressione della trasmissione di bontà («e Dio vide che era cosa buona») tramite un atto personale (carattere verbale della creazione), è indirizzato a ulteriori e più profonde realizzazioni: creazione e salvezza sono saldamente collegate, l’una è la realizzazione dell’altra. Questo comporta che la creazione è stata voluta da Dio in situazione non definitiva, in stato di via: c’è una strada da percorrere prima di arrivare alla situazione di termine . Il rapporto personale stabilito tra Dio e l’uomo nella creazione si dà nel tempo. L’uomo è creato persona storica, soggetto permanente della temporalità ed in grado di determinarla. La vicendevolezza che richiede di per sé l’amore con cui Dio l’ha creato e lo ha posto in una situazione superiore al resto delle creature, si da in una successività di risposte. Fin tanto che l’uomo vive nel tempo, la sua risposta personale amorosa a Dio non è definitiva. Il motivo per cui Dio ha voluto questa provvisorietà, si individua considerando che una creazione in stato di via può essere migliore nel suo insieme che una creazione uscita da Dio già “completata”. Ma questa espressione è vera soltanto se il passaggio allo stato di termine comporta il sorgere di qualcosa di positivo, che non poteva essere incluso in un’ipotetica creazione “completata”. A prima vista questa “qualcosa” non può che far riferimento alla libertà: il più grande dei doni naturali di Dio all’uomo, che si trova alla base del suo essere personale e storico, col quale la creatura può gestire insieme a Dio il suo percorso ed essere veramente nella successività l’altro dell’amore vicendevole che il Creatore ha voluto avere con l’uomo. Ma la libertà nel tempo comporta la precarietà e, soprattutto, la possibilità del non raggiungimento dello stato di termine, sia come situazione definitiva, sia come orientamento in ogni istante delle coordinate esistenziali dell’uomo verso la pienezza finale. Prendendo come dato di partenza la temporalità, è chiaro che questa possibilità di male (non raggiungimento intenzionale dello stato di termine a cui si è chiamato) costituisce una dimensione manifestativa dell’amore divino, giacché una creazione così è migliore di una creazione in cui l’uomo non possa dare una risposta libera o possa darla soltanto atemporalmente. Dire questo, però, non soltanto non risponde alla questione di partenza, ma aggrava ulteriormente la situazione: sorgono infatti, due nuove domande: visto che la libertà non richiede né tempo né spazio (anche gli angeli sono stati, a modo loro, viatores), perché una creazione temporale è migliore di una creazione atemporale?; e soprattutto, perché la possibilità del male non rimane come mera possibilità, senza attualizzarsi? Di fatto, nulla richiede nell’ordine ontologico di Dio o della creatura che il male passi da possibile a reale. Sia chiaro che non si tratta di cercare una risposta a queste domande nella linea dellerationes
17 «L’amore, per natura, esclude l’odio e il desiderio del male nei riguardi di colui, al quale una volta ha dato in dono se stesso: Nihil odisti eorum que fecisti, nulla tu disprezzi di ciò che hai creato (Sap 11, 24). Queste parole indicano il fondamento profondo del rapporto tra la giustizia e la misericordia in Dio, nelle sue relazioni con l’uomo e con il mondo. Esse dicono che dobbiamo cercare le radici vivificanti e le ragioni intime di questo rapporto risalendo “al principio”, nel mistero stesso della creazione», GIOVANNI PAOLO II, Enc. Dives in misericordia, n. 4. 18 Cfr. C. JOURNET, Per una teologia ecclesiale della Storia della Salvezza, M. D’Auria, Napoli 1971, pp. 121 ss. necessariae, ma di sceverare nell’ambito della Rivelazione elementi per una cornice di senso al problema antropologico. Prendendo in considerazione la prima domanda risulta evidente la difficoltà di rispondere. L’essere spazio-temporale dell’uomo sembra a prima vista niente altro che il fondamento ultimo della sua possibilità di sofferenza. La struttura ontologica del creato comporta di per sé la finitezza, l’interazione materiale tra le diverse creature (subordinazione), la precarietà e la contingenza, la vita biologica legata alle leggi della materia... E sembra che tutto questo, anche cambiando modalità, non potrebbe radicalmente essere in un altro modo, visto che la creatura sempre e comunque deve rimanere segnata dal limite: soltanto Dio è illimitato. Allora l’asserzione di un’onnipotenza amorosa che, abbiamo detto, deve includere il non volere il male della creatura non sembra mantenibile: perché qui non si tratta già di possibilità del male, come quando si faceva riferimento alla libertà, ma di reale presenza di limitazioni causanti dolore nella struttura stessa del creato. La constatazione dell’esperienza del rifiuto di queste realtà da parte dell’uomo, e la presenza della domanda sul senso ci fanno capire che l’ordine creazionale spazio-temporale non è l’ambito in cui si pone la questione. Di fatto, il solo concetto di limite non comporta l’idea di sofferenza: altrimenti neanche i beati smetterebbero di soffrire. Una prima risposta all’antinomia arriva dalla Sacra Scrittura per via “fenomenologica”: all’inizio della creazione Dio ha dato all’uomo, e a tutto il creato in lui, i cosiddetti beni praeternaturali, coi quali l’onnipotenza divina liberava all’uomo dalle esperienze dolorose che sarebbero proprie della sua situazione intracosmica. I doni praeternaturali ricuperano l’idea di un onnipotente amoroso che non vuole il male della sua creatura; ma da soli comportano una spiegazione imperfetta: come se Dio avesse bisogno di manovre estrinseche al creato per poterlo proteggere, perché questo possa essere rivelazione del suo amore. La risposta vera e, in definitiva, la ragione ultima dell’esistenza dei beni praeternaturali, va in un’altra linea: la questione reale è che l’onnipotenza divina per manifestarsi personale e amorosa
non può fermarsi ad un dono limitato dall’ontologia della creazione, anche se, come si è già detto, costituisce sempre una restrizione volontaria dell’onnipotenza. Mentre l’onnipotenza ad extra è sempre soggetta al limite, la vera onnipotenza si manifesta nell’illimitatezza del donarsi di Dio stesso: la donazione nella grazia. I doni praeternaturali, infatti, si capiscono soltanto alla stregua dei doni soprannaturali. In altre parole, la creazione include, nel suo essere manifestazione dell’onnipotenza amorosa, l’avere il suo apice, la sua perfezione, nel dono infinito di Dio stesso alla creatura, creata finita ma, in quanto immagine, capace di infinito. In quelle condizioni originarie la creazione era di fatto libera della sofferenza. Il dono della grazia, quindi, ci rimanda alla rivelazione della vita intradivina nel creato: «La verità che Dio è Amore costituisce come l’apice di tutto ciò che è stato rivelato “per mezzo dei profeti e ultimamente per mezzo del Figlio…”, come dice la Lettera agli Ebrei (Eb 1, 1).
Tale verità illumina tutto il contenuto della Rivelazione divina, e in particolare la realtà rivelatadella creazione e quella dell’Alleanza. Se la creazione manifesta l’onnipotenza del Dio-Creatore, l’esercizio dell’onnipotenza si spiega definitivamente mediante l’amore. Dio ha creato perché poteva, perché è onnipotente; la sua onnipotenza, comunque, era guidata dalla Sapienza e mossa dall’Amore. Questa è l’opera della creazione». L’onnipotenza si realizza, quindi, all’interno della Vita di comunione intratrinitaria tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, forma parte di essa .
19 In riferimento al campo stretto della malattia, ecco il parere di un clinico: «In quanto suo accidente predicabile, la malattia sarà allora una “proprietà” della natura umana? Evidentemente no. L'uomo può ridere, anzi, non può non poter ridere, ma non ha l'obbligo di ridere. Analogamente, l'uomo può ammalarsi, anzi, non può non potersi ammalare, ma in nessun modo ha l'obbligo di ammalarsi e ciò è dimostrato da coloro che nel corso della propria vita non si sono mai ammalati. Quello che invece deriva necessariamente dalla condizione umana —e non perché è umana ma perché è viva— è, come sappiamo, l'“ammalabilità”, ossia, la possibilità di ammalarsi, “proprietà difettiva” di qualcosa che l'uomo è per sua natura: un essere vivo.», P. LAIN ENTRALGO, op. cit., p. 221-222. 20 GIOVANNI PAOLO II, Udienza generale 02-10-1985, in Insegnamenti VIII/2, pp. 832-833.
21 «Omnipotens Pater, omnipotens Filius, omnipotens Spiritus Sanctus; et tamen non tres omnipotentes, sed unus omnipotens», Symbolum “Quicumque” pseudo-Athanasianum: DS 75. L’onnipotenza, in sintesi, non si può capire pienamente se non in quanto riferita alla vita di comunione delle tre Persone, alla quale abbiamo accesso nello Spirito per l’agire salvifico del Verbo incarnato: è la potenza stessa della Vita intradivina che diventa onnipotenza amorosa nella sua comunicazione ad extra nella creatura personale. Ovviamente, il termine ad extra, si riferisce qui non all’agire creativo, ma all’ambito delle missioni delle divine Persone: in questo senso, rimanda in ultima istanza alla Persona inviante, a cui si appropria l’onnipotenza che deve essere rivelazione dell’amore: «quando il teologo non riesce a testimoniare più il Padre in modo
convincente, la coscienza cristiana ha paura della figura terribile dell’Onnipotenza arbitraria» . Conseguentemente, possiamo dire che la causa ultima del male nel creato non sono né la finitezza né il limite, ma l’aver perso, la creazione stessa, questa sua perfezione originaria, l’essere diventata imperfetta: mentre l’uomo ha mantenuto il legame presente all’inizio della creazione tra lui e il Creatore Unitrino, la sofferenza non si è affacciata alla storia, perché in qualche senso si mantiene la sua perfezione creaturale. Soltanto quando la creazione è diventata difettiva, perché il peccato ha rotto quel legame, ha dovuto fare i conti con la realtà del dolore . Con questo si risponde alla questione del limite, giacché la sofferenza non dipende da esso, ma dall’imperfezione introdotta nell’ordine creaturale dalla libertà umana. Ma rimane ancora senza risposta la domanda sul perché dell’essere spazio-temporale dell’uomo: la corporeità continua a costituire per noi un mistero radicale. Davanti alla strada sbarrata, l’unica possibilità consiste nel rimandare questa domanda alla eventuale risposta della seconda: al perché dell’avverarsi della possibilità del male.
V. La Misericordia onnipotente: dimensione cristica. Il tentativo di rispondere a quest’ultima incognita ci rimanda alla radicale unità, che si da in Cristo, tra la rivelazione della Trinità e l’opera redentiva. L’onnipotenza, espressa tramite l’Incarnazione, si manifesta in favore dell’uomo: «Dio ha stabilito in Gesù Cristo una nuova ed eterna alleanza con gli uomini. Ha posto la sua onnipotenza al servizio della nostra salvezza» . Vedere l’onnipotenza come strumento della nostra salvezza richiede, comunque, una trattazione previa della questione del peccato. A questo proposito diceva Giovanni Paolo II nell’enciclica sullo Spirito Santo: «Descrivendo la sua “dipartita” come condizione della “venuta” del consolatore, Cristo collega il nuovo inizio 22 M.-J. LE GUILLOU, Il mistero del Padre, Jaca Book, Milano 1979, p. 234.
23 Al contrario, Torres Queiruga prende che a questo punto la strada di affermare che la finitezza comporta necessariamente imperfezione: cfr A. TORRES QUEIRUGA, Creo en Dios Padre. El Dios de Jesucristo como afirmación plena del hombre, Sal Terrae, Santander 1986, pp. 122-124. Questo non sembra adeguato: in termini assoluti, finitezza non implica necessariamente imperfezione, se questa si intende, in senso aristotelico, come la possesione di tutto quello che permette a un essere il raggiungimento del suo fine; usando all’inverso lo stesso esempio dell’autore a cui mi riferisco, un circolo non è imperfetto per il fatto di non essere e non poter mai essere simultaneamente un quadrato. Torres Queiruga, coerente con la sua identificazione finito-imperfetto, arriva a negare realtà storica allo stato di giustizia originaria, riducendolo a racconto mitico (cfr. p. 124). Cfr. anche su questo punto J. DE FINANCE, Il sensibile e Dio. In margine al mio vecchio Catechismo, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1990, pp. 246-247: «La finitudine non è un male, benché ne sia la condizione di possibilità, come la breccia nell’essere per la quale il male si introduce».
24 «Come si può interpretare filosoficamente la possibilità di ammalarsi insita nella natura umana? Per rispondere a questa domanda, il pensatore scolastico si sentì costretto a passare dalla patologia all'etica, e dall'etica alla religione e alla teologia.
La malattia, in effetti, è un «male fisico», e tale osservazione solleva il problema del suo significato nella dinamica della natura. Dunque, la risposta fornita comunemente dall'aristotelismo medievale o scolastico consistette nell'attribuire la possibilità dell'uomo di ammalarsi alla vulneratio provocata nella natura umana dal peccato originale» LAIN ENTRALGO, op.cit. p. 226. 25 BEATO JOSEMARIA ESCRIVÀ, Amici di Dio, Ares, Milano 1978, n. 190. La stessa idea è stata manifestata da Giovanni Paolo II nel recente Varcare la soglia della Speranza, Mondadori, Milano 1994: «Dio non è qualcuno che sta soltanto al di fuori del mondo, contento di essere in Se stesso il più sapiente e onnipotente. La Sua sapienza e onnipotenza si pongono, per libera scelta, al servizio della creatura», p. 68. della comunicazione salvifica di Dio nello Spirito Santo al mistero della redenzione. Questo è un nuovo inizio, prima di tutto perché tra il primo inizio e tutta la storia dell’uomo —cominciando dalla caduta originale— si è frapposto il peccato, che è contraddizione alla presenza dello Spirito di Dio nella creazione ed è, soprattutto, contraddizione alla comunicazione salvifica di Dio all’uomo. Scrive San Paolo che, proprio a causa del peccato, “la creazione ... geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto” e “attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio” (cfr Rm 8, 22-25)»26. Si sottolinea così la chiave pneumatologica di quanto detto nel punto precedente, cioè, l’essere il peccato, in quanto causante della perdita della comunicazione salvifica di Dio all’uomo, la causa del gemere della creatura. Il ruolo dello Spirito Santo in quanto nesso ad extra, fondato sulla sua specifica funzione intratrinitaria, viene di fatto restaurato come conseguenza della pienezza della missione del Figlio. In questa linea, includendo già nel discorso il dato definitivo del superamento del peccato nell’opera redentiva e il misterioso concetto della felix culpa, il Pontefice, in un altro luogo dello stesso documento, concludeva : «Di fronte al mistero del peccato bisogna scrutare “le profondità di Dio” fino in fondo. Non basta scrutare la coscienza umana, quale intimo mistero dell’uomo, ma bisogna penetrare nell’intimo di Dio». Senza «penetrare nell’intimo di Dio», quindi, non soltanto non si percepisce la realtà del mysterium iniquitatis, ma non si può neanche trovare una via di uscita.
Infatti, una volta svelata all’uomo la profondità di male radicale del peccato, si dovrebbe chiudere la porta ad ogni speranza e risolvere in negativo il problema del senso del dolore, in quanto questo non sarebbe altro che l’espressione della persistente e ineluttabile «vicinanza al nulla» provocata nella creatura dall’allontanamento da Dio e dalla Vita. La rottura della comunione con la Trinità offusca nell’uomo l’essere dialogico, fondato sull’essere immagine di Dio: in una fortunata espressione di Cornelio Fabro, la coscienza di peccato è «l’isolante assoluto, perché il peccato è soltanto mio». La perdita della dimensione ultima della capacità dialogica ha innanzi tutto come conseguenza l’incapacità umana di realizzare l’aspirazione alla felicità che, abbiamo visto, si fonda sulla comunione interpersonale. Inoltre, la chiusura dialogica dell’essere umano comporta l’impossibilità di apertura comunicativa con la realtà che lo trascende, che è l’ultima chiave degli enigmi della sua esistenza. Si può concludere in primo luogo che Dio non è la causa dell’infelicità dell’uomo, perché non è Lui a rompere la comunicazione; in secondo luogo, la situazione di infelicità non è risolvibile per iniziativa dell’uomo, incapace di ricreare il dialogo: non avendo lui una parola da rivolgere a Dio, deve darsi di nuovo il Logos divino all’uomo. La forza dell’onnipotenza divina si fa presente di nuovo per manifestare che «nessun peccato umano prevale su questa forza e nemmeno la limita», attraverso la sua nuova espressione amorosa nella redenzione operata dal Logos incarnato. Ma la redenzione di fatto, non ha cancellato la sofferenza. Ha comportato, invece, la speranza sicura nella sua sconfitta. Bisognerebbe anche rispondere al perché di questa dilazione. In ogni caso, rimane chiaro che la confessione di fede nella 26 GIOVANNI PAOLO II, Litt. Enc. Dominum et Vivificantem, 18-V-1986, n. 13. 27 Ibidem n. 32. 28 «Nachbarschaft zum Nichts», M. SCHMAUS, Katholische Dogmatik, vol. I, ed. Max Hüber, München 1960, p. 655.
29 Cosa costatabile anche nell’ordine naturale: «El ser que estudia la ampliación de lo trascendental es el ser-con, la persona, pues no puede ser único: sería una tragedia ontológica. Y una tragedia ontológica es imposible: lo último, lo lás importante, no puede ser trágico. La tragedia puede aparecer en la vida humana porqie el hombre peca precisamente por desvinculación del coexistir, por pretender no coexistir», L. POLO, Presente …, op.cit. p. 177. 30 C. FABRO, Il peccato nell’esistenzialismo contemporaneo, in P. PALAZZINI (ed.), Il peccato nell’esistenzialismo contemporaneo, Ares, Roma 1959, p. 724. 31 GIOVANNI PAOLO II, Dives in misericordia, n. 13.
La remissione dei peccati, contenuta nel Simbolo, si trova alla base della possibilità di sperimentare la persistenza della sofferenza come qualcosa di positivo. Mi si permetta, per continuare, di riprendere ancora l’argomento dell’inadeguatezza di rimandare a questo punto il problema alla questione della libertà: secondo alcuni —non pochi—il grande bene che essa comporta alla natura umana sarebbe il motivo per il quale Dio avrebbe permesso il peccato e con esso la sofferenza dell’umanità. La libertà, ripeto, non include necessariamente l’avverarsi del peccato: la partecipazione all’essere dominum di Dio, in cui essa consiste, include in un essere successivo —uomo o angelo— la possibilità di peccare, ma non l’inevitabilità di peccare. Affermare che la permissio divina è conseguenza del dono della libertà, comporta dire che Dio non è ontologicamente onnipotente —non potrebbe creare un essere libero che, anche se in quanto finito dovesse essere peccabile, fosse di fatto non peccante— e, a livello esistenziale, che il peccato è una componente umana che troverebbe la sua struttura ultima nella stessa costituzione creaturale storicamente concreta dell’essere umano: un peccato senza colpa e senza pena. E se così fosse, il dolore non dovrebbe creare un problema di senso.
Maria, con la sua libertà creata spazio-temporale, libertà di fatto non peccante, è la dimostrazione concreta di questo aspetto dell’onnipotenza divina; ma lo sono di più, in un certo senso, le libertà create peccanti redente, giacché, in definitiva, l’ulteriore espressione dell’onnipotenza si dà quando nell’Uomo, Figlio di Maria, si realizza la redenzione di tutte le libertà, la loro riconnessione con la Vita. D’altra parte anche la stessa Madre di Dio deve la sua peculiare condizione all’inserimento anticipato in questa dinamica di salvezza.

L’economia redentiva dell’Incarnazione, quindi, diventa la chiave di volta. «Appunto perché esiste il peccato nel mondo, che “Dio ha tanto amato … da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16), Dio che “è amore” (1Gv 4,8) non può rivelarsi altrimenti se non come misericordia». L’incarnazione rivela l’onnipotenza al servizio dell’uomo tramite la sua relazione col peccato: «al più grande peccato da parte dell’uomo corrisponde, nel cuore del Redentore, l’oblazione del supremo amore, che supera il male di tutti i peccati degli uomini». Il Verbo incarnato, non solo manifesta l’Amore tramite l’unione che in Lui si realizza tra Dio e l’uomo, il che sarebbe già espressione eminente dell’onnipotenza trinitaria, ma anche raggiunge il livello massimo rivelativo tramite l’economia con cui, distruggendo il peccato, riammette l’uomo alla comunione trinitaria, a cui da solo non poteva aspirare più: «la più grande forza è quella che si manifesta in un amore totale, e che conquista l’amore totale degli altri». Cioè, la risposta, sempre al di qua del mistero, alla seconda domanda —il perché dell’avverarsi della possibilità del male—, include l’idea teologica dipermissio divina del peccato, fondata sulla realizzazione di una rivelazione più alta dell’amore come misericordia, che richiede la confessione dell’onnipotenza come condizione del fatto che Dio non è costretto da nulla all’ora di mettere in moto l’economia redentiva: se Dio non potesse fare a meno del peccato, non potrebbe neanche fare a meno, in definitiva, dell’operare la nostra salvezza: altrimenti il peccato avrebbe distrutto il suo disegno originario, e non sarebbe pensabile una sua rivelazione come Amore (onnipotenza trinitaria). Ma un Dio buono e impotente davanti al male, che non può non salvare, è 32 Cfr. Rm 8, 19-25.
33 Lo svuotamento in questo senso dell’idea di peccato è presente in molti aspetti della cultura contemporanea: «La colpa di cui si parla è il limite stesso della finitezza di cui è affetta l’esistenza; e perciò una colpa senza colpevoli, perché la colpevolezza è una struttura dell’esistenza che ne è la portatrice; ed è una colpa senz’alcuna pena o castigo, perché la pena è la stessa appartenenza della finitezza all’esistenza —quindi colpa e pena finiscono per coincidere», C. Fabro, op.cit., p. 723. 34 GIOVANNI PAOLO II, Dominum et Vivificantem, n. 31. 35 Ibidem. 36 STANILOAE, op.cit., p. 100. contraddittorio; una costrizione così è frutto di una necessità che non si addice alla sua natura: o non sarebbe Dio, o non sarebbe Amore. Per disegno divino, l’espressione storica di questa forza ha comportato l’assunzione da parte di Cristo delle conseguenze del peccato, il loro annichilimento dal di dentro: Gesù di Nazaret, in quanto manifestazione nella storia della potenza dell’Amore che Dio è, fa suo il dolore, per vincerlo: «è venuto sulla terra per soffrire … e per risparmiare le sofferenze —anche quelle terrene — agli altri». Infatti, se la rivelazione di un Dio che permette il peccato per manifestare la sua misericordia, non includesse l’annullamento delle conseguenze di esso, questa rivelazione non sarebbe sperimentabile da parte dell’uomo. Allora, anche se queste conseguenze non spariscono di fatto (il dolore è sempre presente, e non sembra possibile una futura vittoria su di esso dalla prospettiva intraterrena) ci è data la sicura speranza nella loro sconfitta. In base a questa speranza l’esperienza della salvezza acquista una dimensione escatologica. E la prova che l’uomo possiede del futuro trionfo sulla sofferenza, in modo da trovare così un senso alla sua sopportazione, risiede appunto nel fatto di sapere che questa è diventata in Cristo proprio lo strumento della sua redenzione. In altre parole, il mistero della Passione e della Croce di Cristo, e la conseguente valenza salvifica della sofferenza, sono il culmine della manifestazione dell’onnipotenza divina. L’attuale Pontefice afferma: «se nella storia umana è presente la sofferenza, si capisce perché la Sua onnipotenza si è manifestata con l’onnipotenza dell’umiliazione mediante la Croce. Lo scandalo della Croce rimane la chiave di interpretazione del grande mistero della sofferenza, che appartiene in modo così organico alla storia dell’uomo». E più avanti accenna l’argomento ad adsurdum: «Dio è sempre dalla parte dei sofferenti. Ma la Sua onnipotenza si manifesta proprio nel fatto che ha accettato liberamente la sofferenza. Avrebbe potuto non farlo … Se fosse mancata quell’agonia sulla croce, la verità che Dio è Amore sarebbe sospesa nel vuoto».
Pertanto, il dover soffrire di Cristo —e di tutta l’umanità in Lui— acquista un senso radicale nel suo carattere strumentale salvifico, fondato sull’onnipotenza misericordiosa. L’onnipotenza che si manifesta nell’Essere divino è la condizione di possibilità; l’onnipotenza trinitaria, ammettendo l’uomo al dialogo intradivino tramite l’Incarnazione, permette che la sua sofferenza diventi sofferenza di Cristo. Su questo sfondo possiamo illuminare in qualche forma la prima domanda. La verità del limite spazio-temporale dell’essere dell’uomo, condizione della sua passibilità, può essere vista adesso, all’interno del disegno divino, come la forma concreta con cui Dio ci ha dato la possibilità di partecipare all’opera della redenzione e, pertanto, all’espressione massima della sua onnipotenza. L’uomo è in certo senso onnipotente, perché il suo limite gli permette il passo all’illimitatezza dell’Amore divino.
Ma prima ancora, in riferimento non tanto all’istrumentalità salvifica, quanto all’origine, possiamo vedere il dono della spazio-temporalità come la condizione che —sempre in dipendenza della infinitamente libera volontà creatrice— rende possibile lo stesso disegno divino. Infatti, non basta essere successivi per essere capaci del perdono e della trasformazione che l’opera della redenzione e la rivelazione della misericordia comportano: alla successività si devono aggiungere delle ulteriori possibilità di rifacimento anteriori allo stato di termine: la libertà deve essere storica. In definitiva, perché siamo spazio-temporali, possiamo essere perdonati. La nostra finitezza, che potrebbe sembrare un paradosso all’idea dell’onnipotenza, è condizione di possibilità della sua 37 BEATO JOSEMARÌA ESCRIVÀ, Forgia, Ares, Milano 1987, n. 1044. Non entriamo nella problematica teologica della convenienza di questo prendere la sofferenza da parte di Cristo per operare la redenzione: ci basta qui il rimando alla fondamentalità del dato, abbondantemente presente nella Sacra Scrittura e nella prima letteratura ecclesiale con motivo della controversia docetista. 38 GIOVANNI PAOLO II, Varcare…, op.cit. pp. 68-69. 39 Ibidem, p. 74. manifestazione massima nell’amore più forte della morte. Proprio in questo l’uomo può considerarsi al vertice della creazione, in certo modo superiore all’angelo, che pur avendo anche lui un percorso da fare per arrivare alla salvezza in Cristo (successività tra lo stato di via e lo stato di termine), non può essere perdonato. In definitiva, la prova della storia giova a una libertà creata.
VI. Dimensioni ecclesiali dell’onnipotenza: liberazione ed espiazione. La vittoria sul dolore e sulla sofferenza, anche se si è data in tensione escatologica, forma parte integrante dell’agire storico di Cristo in quanto Verbo incarnato. Per questo motivo il cristiano ha il compito intrinseco di collaborare, in virtù della sua unione storica a Cristo nello Spirito e nella Chiesa, alla manifestazione di questa vittoria, sforzandosi di rimuovere le conseguenze dell’imperfezione introdotta dal peccato nel cosmo. Il cristiano non può non vivere questo impegno per debellare la sofferenza, perché esso forma parte della richiesta che l’uomo ha di manifestare il Dio-Amore onnipotente, di essere la sua immagine nel mondo. La creazione ferita dal peccato dell’uomo viene messa nella mani dell’uomo perché sia lui lo strumento della sua liberazione, la cifra della sua speranza: essa «attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio» (Rm 8, 19). L’unione vitale a Cristo nella grazia, nella quale l’uomo, nello Spirito Santo, viene coinvolto in prima persona nel dialogo salvifico, fa che questo impegno di liberazione dallo stato sofferenza non possa essere visto unicamente nella sua componente storica: non è solo compito intraterreno, ma vera attività salvifica. In questo senso la vita terrena del cristiano diventa espressione dell’onnipotenza divina. Inoltre, l’accettazione libera della sofferenza in quanto conseguenza del peccato manifesta e realizza nel singolo l’agire storico del Verbo incarnato. Anzi, la stessa sofferenza, vintagià ma non ancora, è diventata strumento di salvezza: perciò si capisce la paradossale persistenza della sofferenza dopo il trionfo di Cristo, che si spiega per gli stessi motivi per cui viene rimandata escatologicamente la manifestazione piena della sua vittoria. La realtà storica della risurrezione è il segno di questa vittoria. Portando a pienezza una temporalità che per volere di Dio rimane ancora aperta, questa verità di fede dà al credente la certezza della speranza di fronte all’esperienza del dolore, nel momento in cui l’istanza anteriore — l’impegno cristiano per farla sparire— si scopre incapace di una vittoria definitiva nel tempo. L’Amore, quindi, adoperando la sofferenza come sistema per portare a perfezione l’imperfetto, da così un valore positivo al sempre rimanente dolore umano, presupposta l’identificazione con Cristo a cui —nella diversità delle economie di salvezza— ogni uomo è chiamato. Questa solidarietà con Cristo nel dolore redentivo è stata manifestata con un’immagine illuminante da Michael Schmaus: seguendo l’insegnamento agostiniano, secondo il quale il Cristo storico diventa Christus totus tramite l’incorporazione della Chiesa come suo Corpo Mistico, la passione di Cristo diventa passio tota in virtù della passione di tutti gli uomini uniti a Lui; e come la prima ha la potenza di operare la redenzione, così la seconda acquista valenza salvifica.
40 Come lo è stata la stessa vita terrena di Gesù, nei suoi atti concreti di eliminazione delle miserie umane, espressione dell’amore divino incondizionato verso l’uomo e della sua onnipotenza misericordiosa: «Fonte d’acqua viva, da parte di Dio scaturì questo Cristo nel deserto della conoscenza di Dio, cioè, nella terra delle nazioni: Lui, che apparendo nel vostro popolo guarì i ciechi di nascita secondo la carne, i sordi e gli zoppi, facendo con la sua parola che questi balzassero, quelli sentissero, i primi riacquistassero la vista; e risuscitando i morti e dandogli la vita incitava gli uomini, per le sue opere, perché lo riconoscessero» SAN GIUSTINO M., Dialogus cum Tryphone, 69, 6.
41 Questa verità corrisponde anche all’esperienza meramente umana del dolore: «Love, in its own nature, demands the perfecting of the beloved; that the mere “kindness” which tolerates anything except suffering in its object is, in that respect, at the opposite pole of Love» C. S. LEWIS, The Problem of Pain, William Collins Sons & Co., Glasgow 1989, p. 37. 42 Cfr M. SCHMAUS, op.cit., p. 656. Così questa dimensione ecclesiale determina ancora una risposta alla possibile questione sul perché del perdurare della sofferenza. Infatti, mentre la storia non arriverà alla sua pienezza e si compirà il numero degli eletti voluto dall’Amore, la modalità della redenzione continuerà ad essere presente nel mondo in forma di dolore umano e divino. Anche questa verità richiede la confessione dell’onnipotenza che non è limitata dalle coordinate spazio-temporale, anzi, le trascende: se mantiene la tensione escatologica, che è anche espressione della sua sofferenza volontaria, lo fa per chiamare ed includere altri membri nel suo Corpo Mistico. Così, l’inserimento dell’uomo nel dialogo salvifico tra il Padre e il Figlio non comporta soltanto, come detto prima, l’impegno di liberazione della sofferenza, ma la sua stessa accettazione come strumento di salvezza. In Cristo, il dolore dell’uomo acquista il suo valore ultimo intraterreno nell’espiazione, —qui intesa, molto limitatamente, come via di ripristino della condizione originaria —, e per questo diventa espressione e partecipazione umana all’Onnipotenza misericordiosa che Lui, nella sua Passione, manifesta. L’accettazione del dolore come realtà strumentale di salvezza diventa per l’uomo credente conferma ed esperienza del Dio-amore onnipotente. Ma ci si domanda se i diversi livelli di concettualizzazione di Dio onnipotente possano fornire elementi di risposta al riassunto di tutte le sofferenze umane che si svela nella radicalità dellamorte. Inoltre, si apre un nuovo interrogativo, in correlazione con la verità del peccato, riguardante la presenza inesorabile della colpa. A questi due aspetti bisogna far riferimento in seguito, cercandone la correlazione con altre proprietà dell’Essere divino.
Pontificio Ateneo della Santa Croce Piazza Sant’Apollinare, 49 00186 ROMA
http://www.pusc.it/teo/p_galvan/pp2.pdf

venerdì 28 ottobre 2011

Omelia domenica VI di Pasqua anno B

Oggi la nostra attenzione è rivolta allo Spirito Santo, alla festa prossima dell’Ascensione e poi alla solennità della Pentecoste.
Lo Spirito Santo è il dono del Cristo Risorto :Gesù che è Via ,Verità e Vita non può lasciare soli i suoi discepoli “ sarò con voi, insieme con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo” ;Gesù che è unità con il Padre non può lasciare orfani i suoi discepoli :”non vi lascerò orfani, ritornerò da voi “, Gesù ritornerà nella presenza viva dello Spirito Santo fino alla fine del mondo.
Le letture di oggi riportano una verità per i discepoli allora e per tutti noi oggi . Gesù ha lasciato questa terra solo nella sua visibilità, ma è rimasto vivo e presente realmente in mezzo a noi, un Gesù vivo e presente nella Parola proclamata,vivo e presente nello Spirito Santo ,presente nella Chiesa, vivo e presente nell’Eucaristia.

Nella prima lettura ci parla dello Spirito Santo. La Chiesa appena nata è già missionaria e porta ovunque non un organizzazione,non delle strutture,ma l’annuncio di Gesù che è Risorto e il dono dello Spirito Santo. L’apostolo Pietro diventa annunciatore del Risorto e del suo Spirito. La prima lettura dagli atti degli apostoli ci presenta alcuni punti chiari :
1.l’annuncio da parte dell’apostolo,
2.il messaggio dell’annuncio :”Gesù è il Cristo, il Messia, il Signore,il Salvatore che ha vinto la morte”,
3.Dio che non fa preferenza di persone, anche se ha ha compiuto delle scelte,ha scelto di essere ebreo e di nascere ebreo,ha scelto una donna ebrea come sua Madre. Sopra tutte le verità è rivelazione che Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini e per la salvezza di ogni uomo si è incarnato ed ha scelto la morte in redenzione ed è Risorto,
4.lo Spirito Santo non è proprietà di alcuni o dono solo per alcuni, ma spirito di vita per tutti.

Dello Spirito Santo si parla anche nel Vangelo. Gesù salendo al cielo non ci ha abbandonati, non ci ha lasciati in balia di noi stessi o nelle mani di un mondo posto nel maligno, Gesù non poteva abbandonare la sua Chiesa, ma ha voluto rimanere per tutti come l’unica pietra angolare, come l’unico Signore della nostra storia,perché nessuno si sentisse sfiduciato o nella disperazione e nessuno si ritenesse tanto importante e indispensabile per edificare il corpo della Chiesa.
E’ lo Spirito che vivifica, che anima la Chiesa e la sostiene.
Oggi riflettiamo sul messaggio evangelico: Gesù ci assicura e ci garantisce attraverso lo Spirito Santo:
1.che le preghiere vengono ascoltate da Dio sempre. Ci invita a chiedere a domandare: “tutto quello che chiederete al Padre nel mio, nome ve lo conceda”,
2.ci assicura l’Amore. Il comandamento fondamentale, il comando che Gesù ci ha lasciato come testamento nell’ultima cena , nella lavanda dei piedi e nella sua parola e nel suo esempio è “questo vi comando amatevi gli uni gli altri”.
Questo è un comando di Gesù , comando che l’apostolo ed evangelista Giovanni ripete fino al termine della vita: “figlioli miei amiamoci gli uni gli altri”, una parola che il papa attuale sta annunciando ovunque si reca come il suo testamento o come il suo annuncio per un mondo migliore.

Questo vi comando: “amatevi gli uni gli altri..da questo conosceranno che siete i miei discepoli”.
LA PREGHIERA. La preghiera che nasce dal cuore, che si radica nella fede,che alimenta la speranza, è la preghiera fatta in spirito. L’adorazione fatta in spirito e verità perché il Padre cerca tali adoratori. Lo spirito è vita, lo spirito rinnova. Lo spirito trasforma, lo spirito suscita la preghiera anche la preghiera di domanda e la guida. Ma purtroppo alcuni amano le preghiere mnemoniche, le preghiere meccaniche, imparate a memoria, preghiere anche dense di contenuti ma vuote di vitalità e di spontaneità, preghiere magari numerose e monotone, ma mancano del soffio dello spirito per essere ascoltate.

Questa parola del vangelo è una parola fondamentale per noi cristiani credenti :la comunità cristiana, la Chiesa intesa come comunità diocesana o anche parrocchiale è sostenuta e diretta dallo Spirito Santo che guida in primo luogo il Papa e poi i Vescovi e quindi non ha bisogno di altri sostegni umani o di strutture umane, non ha bisogno di altre guide o maestri .

Una preghiera oggi 28 ottobre

Al Dio del tempo

O Dio, tu che hai del tempo per noi,
donaci del tempo per te.
Tu che tieni nelle tue mani ciò che è stato e ciò che sarà,
fa' che sappiamo raccogliere nelle nostre mani
i momenti dispersi della nostra vita.
Aiutaci a conservare il passato senza esserne immobilizzati,
a vivere rendendoti grazie e senza nostalgia,
a conservare fedeltà e non rigidità.
Libera il nostro passato da tutto ciò che è inutile
che ci schiaccia senza vivificarci,
che irrita il presente senza nutrirlo.

Donaci di restare ancorati al presente
senza esserne assorbiti,
di vivere con slancio e non a rimorchio,
di scegliere l'occasione favorevole
senza aggrapparci alle occasioni perdute,
di leggere i segni senza prenderli per oracoli.
Libera il nostro presente dalla febbre che agita
e dalla pigrizia che spegne ogni decisione.
Donaci il sapore del momento presente
e liberaci da ogni sogno illusorio.

Facci guardare al futuro,
senza bramare la sua illusione,
né temere la sua venuta; insegnaci a vegliare.
Libera il nostro avvenire da ogni preoccupazione inutile,
da ogni apprensione che ci ruba il tempo,
da tutti i calcoli che ci imprigionano.
Tu sei il Dio che mette il tempo
a disposizione della nostra memoria, delle nostre scelte,
della nostra speranza.

Di: Joseph Rozier
http://www.novena.it/il_punto/preghiera.htm

giovedì 27 ottobre 2011

Omelia domenica XXX domenica anno B

Domenica scorsa la parola di Dio ci aveva invitato a riflettere sul servizio di carità ai fratelli specie quelli più bisognosi,perché Dio scegli i piccoli, i poveri, i rifiutati, i deboli, e invece confonde i forti ed abbassa i potenti. La carità freterna,l’amore di oblatività verso il prossimo nasce proprio dalla fede e oggi la Liturgia ci esorta a riflettere sul tema attuale e molto importante per tutti noi : il tema della fede.
Una riflessione sulla nostra fede incerta , sui dubbi che l’accompagnano , sulla nostra poca fede o peggio sulla nostra cecità spirituale , per poter gridare come il cieco:”Figlio di Davide, Gesù abbi pietà di noi”.
La fede come più volte abbiamo detto è un dono di Dio, la fede è l’esperienza di un incontro con Il Signore, la fede perciò coinvolge tutta la vita dell’uomo.

Oggi il racconto del vangelo è una vera catechesi per noi, perché spesso siamo anche noi ciechi a riguardo alla fede. Perché è molto facile perdere la luce della fede, perchè questa luce che è la fede e che illumina la nostra vita presente e ci una speranza oltre la vita terrena, questa luce non ce la possiamo dare noi, essa è un dono donato da Dio in germe nel Battesimo e un dono continuo che viene dall’alto e che noi dobbiamo chiedere sempre con insistenza nelle nostre preghiere,e dire: “Signore fa che io veda” perchè Tu Signore sei Via, verità e vita.

La prima lettura è del profeta Geremia e si riferisce alla processione gioiosa del ritorno degli esuli, dei deportati del popolo d’Israele da Babilonia alla terra della Palestina. La popolazione è ormai poca, si tratta di un resto, di un piccolo gruppo di esiliati che ora tornano nella loro patria e con loro Dio continua la sua storia di salvezza. Il Signore continua ad essere per Israele motivo di gioia e di consolazione, “li condurrà per la via diritta”, accompagnandoli come un padre.
Ogni ritorno nella Bibbia, ha un riferimento al tema della conversione: “ritornate al Signore vostro Dio, cambiate vita”,una immagine l’abbiamo nel figlio che si era allontanato dalla casa paterna e poi ritorna.
Il miracolo come la fede presuppongono una conversione radicale e del cuore al Signore. E il brano evangelico ci parla proprio di questo.

Il cieco rappresenta l’uomo che non ha la luce della fede, me è sulla via, sulla strada della ricerca della della verità, è il cieco che vuole guarire, è l’uomo alla ricerca della luce della fede, è l’uomo che ancora non vede Gesù,ne sente parlare, forse sente qualche suo richiamo, ma al tempo stesso desidererebbe farne l’esperienza, perché sa che in Gesù e da Gesù può trovare la luce e la vista. E’ l’uomo che finalmente scopre la sua cecità, scopre di essere nelle tenebre, scopre a un certo punto della vita che sta camminando nelle tenebre, perché non sa dare un senso al suo vivere, non riesce a dare un significato al dolore, alla vita , alla morte; però è anche un uomo alla ricerca, desidera la guarigione, desidera la luce per dare un significato pieno alla sua esistenza.
Il cieco Bartimeo non solo vede Gesù dopo il miracolo, ma apre il suo cuore alla fede e si mette a seguire il Maestro.Anche noi siamo come il cieco di Gerico, perché anche noi possiamo trovarci nella cecità spirituale, ciechi nella fede. Vogliamo seguire Gesù ma siamo impediti da tante cose. La prima cosa da fare è renderci conto della nostra poca fede e poi comprendere che la luce della fede non può provenire dalle cose o da altre persone, ma solo da Gesù.

Il cammino della fede non è mai e non è mai per nessuno un cammino facile. Nella fede si richiede sempre di lasciare dietro di sé qualcosa e qualcuno come Abramo o come gli apostoli, si richiede di camminare verso un ignoto ma luminoso, verso un futuro non garantito da nessuna tecnica umana, ma la fede esige un abbandono incondizionato della logica della carne, della logica degli istinti, comporta l’abbandono senza riserve di tutte le sicurezze e le garanzie umane per affidarci esclusivamente e totalmente del Signore, perché è Padre ed è fedele.

Tutto questo oggi diventa o è già diventato più difficile di un tempo . Mentre in un passato non tanto lontano negli anni, la fede era un punto fermo di sicurezza per la vita, era una risposta ovvia di fronte alle tante assurdità dell’esistenza e agli interrogativi dell’uomo e del mondo;oggi non è più così:
oggi l’uomo, intriso di tecnologie ,scienze e leggi di mercato, vuole vedere con i propri occhi se una certa cosa è vera, vuole toccare con mano, vuole farsi lui l’esperienza, l’uomo avvolto e preso da una mentalità scientista, tecnologica e razionalista non accetta più come vero se non ciò che è evidente o dimostrabile attraverso la scienza.

Constatiamoil diffondersi sempre più di una cultura,di una mentalità materialistica ed edonistica, dove al primo posto ci sono: il piacere, il denaro, la vita comoda, il potere, inoltre il degrado progressivo della morale, del discernimento di ciò che è bene e di ciò che è male, al quale si unisce il degrado dell’ambiente e la vita sempre più stressante , inquinata e invivibile, e per di più l’acuirsi del problema del male e del dolore e della morte di parte dell’umanità o perché colpite da terribili mali o perché colpite dalla miseria, in questo quadro la mancanza di autentici uomini di fede, di persone che abbiano una fede cosciente e robusta che attrae anche chi è nelle tenebre o è cieco.
Se ci vediamo lontani da questa fede forte convinta e convincente, fondata sulle Sacre Scritture,sulla Tradizione e sulla Chiesa e pronta alla testimonianza nel concreto, oggi siamo invitati alla conversione, o almeno ad una accorata preghiera, quella di Bartimeo: “Signore, figlio di Davide abbi pietà di me, fa che io veda

L’assenza di Dio porta al decadimento. 27 ottobre 2011 .Parole del Papa

Cari fratelli e sorelle,
distinti Capi e rappresentanti delle Chiese e Comunità ecclesiali e delle religioni del mondo,
cari amici,
sono passati venticinque anni da quando il beato Papa Giovanni Paolo II invitò per la prima volta rappresentanti delle religioni del mondo ad Assisi per una preghiera per la pace. Che cosa è avvenuto da allora? A che punto è oggi la causa della pace? Allora la grande minaccia per la pace nel mondo derivava dalla divisione del pianeta in due blocchi contrastanti tra loro. Il simbolo vistoso di questa divisione era il muro di Berlino che, passando in mezzo alla città, tracciava il confine tra due mondi. Nel 1989, tre anni dopo Assisi, il muro cadde – senza spargimento di sangue. All’improvviso, gli enormi arsenali, che stavano dietro al muro, non avevano più alcun significato. Avevano perso la loro capacità di terrorizzare. La volontà dei popoli di essere liberi era più forte degli arsenali della violenza. La questione delle cause di tale rovesciamento è complessa e non può trovare una risposta in semplici formule. Ma accanto ai fattori economici e politici, la causa più profonda di tale evento è di carattere spirituale: dietro il potere materiale non c’era più alcuna convinzione spirituale. La volontà di essere liberi fu alla fine più forte della paura di fronte alla violenza che non aveva più alcuna copertura spirituale. Siamo riconoscenti per questa vittoria della libertà, che fu soprattutto anche una vittoria della pace. E bisogna aggiungere che in questo contesto si trattava non solamente, e forse neppure primariamente, della libertà di credere, ma anche di essa. Per questo possiamo collegare tutto ciò in qualche modo anche con la preghiera per la pace.
Ma che cosa è avvenuto in seguito? Purtroppo non possiamo dire che da allora la situazione sia caratterizzata da libertà e pace. Anche se la minaccia della grande guerra non è in vista, tuttavia il mondo, purtroppo, è pieno di discordia. Non è soltanto il fatto che qua e là ripetutamente si combattono guerre – la violenza come tale è potenzialmente sempre presente e caratterizza la condizione del nostro mondo. La libertà è un grande bene. Ma il mondo della libertà si è rivelato in gran parte senza orientamento, e da non pochi la libertà viene fraintesa anche come libertà per la violenza. La discordia assume nuovi e spaventosi volti e la lotta per la pace deve stimolare in modo nuovo tutti noi.
Cerchiamo di identificare un po’ più da vicino i nuovi volti della violenza e della discordia. A grandi linee – a mio parere – si possono individuare due differenti tipologie di nuove forme di violenza che sono diametralmente opposte nella loro motivazione e manifestano poi nei particolari molte varianti. Anzitutto c’è il terrorismo, nel quale, al posto di una grande guerra, vi sono attacchi ben mirati che devono colpire in punti importanti l’avversario in modo distruttivo, senza alcun riguardo per le vite umane innocenti che con ciò vengono crudelmente uccise o ferite. Agli occhi dei responsabili, la grande causa del danneggiamento del nemico giustifica ogni forma di crudeltà. Viene messo fuori gioco tutto ciò che nel diritto internazionale era comunemente riconosciuto e sanzionato come limite alla violenza. Sappiamo che spesso il terrorismo è motivato religiosamente e che proprio il carattere religioso degli attacchi serve come giustificazione per la crudeltà spietata, che crede di poter accantonare le regole del diritto a motivo del "bene" perseguito. La religione qui non è a servizio della pace, ma della giustificazione della violenza.
La critica della religione, a partire dall’illuminismo, ha ripetutamente sostenuto che la religione fosse causa di violenza e con ciò ha fomentato l’ostilità contro le religioni. Che qui la religione motivi di fatto la violenza è cosa che, in quanto persone religiose, ci deve preoccupare profondamente. In un modo più sottile, ma sempre crudele, vediamo la religione come causa di violenza anche là dove la violenza viene esercitata da difensori di una religione contro gli altri. I rappresentanti delle religioni convenuti nel 1986 ad Assisi intendevano dire – e noi lo ripetiamo con forza e grande fermezza: questa non è la vera natura della religione. È invece il suo travisamento e contribuisce alla sua distruzione. Contro ciò si obietta: ma da dove sapete quale sia la vera natura della religione? La vostra pretesa non deriva forse dal fatto che tra voi la forza della religione si è spenta? Ed altri obietteranno: ma esiste veramente una natura comune della religione, che si esprime in tutte le religioni ed è pertanto valida per tutte? Queste domande le dobbiamo affrontare se vogliamo contrastare in modo realistico e credibile il ricorso alla violenza per motivi religiosi.
Qui si colloca un compito fondamentale del dialogo interreligioso – un compito che da questo incontro deve essere nuovamente sottolineato. Come cristiano, vorrei dire a questo punto: sì, nella storia anche in nome della fede cristiana si è fatto ricorso alla violenza. Lo riconosciamo, pieni di vergogna. Ma è assolutamente chiaro che questo è stato un utilizzo abusivo della fede cristiana, in evidente contrasto con la sua vera natura. Il Dio in cui noi cristiani crediamo è il Creatore e Padre di tutti gli uomini, a partire dal quale tutte le persone sono tra loro fratelli e sorelle e costituiscono un’unica famiglia. La Croce di Cristo è per noi il segno del Dio che, al posto della violenza, pone il soffrire con l’altro e l’amare con l’altro. Il suo nome è "Dio dell’amore e della pace" (2 Cor 13,11). È compito di tutti coloro che portano una qualche responsabilità per la fede cristiana purificare continuamente la religione dei cristiani a partire dal suo centro interiore, affinché – nonostante la debolezza dell’uomo – sia veramente strumento della pace di Dio nel mondo.
Se una tipologia fondamentale di violenza viene oggi motivata religiosamente, ponendo con ciò le religioni di fronte alla questione circa la loro natura e costringendo tutti noi ad una purificazione, una seconda tipologia di violenza dall’aspetto multiforme ha una motivazione esattamente opposta: è la conseguenza dell’assenza di Dio, della sua negazione e della perdita di umanità che va di pari passo con ciò. I nemici della religione – come abbiamo detto – vedono in questa una fonte primaria di violenza nella storia dell’umanità e pretendono quindi la scomparsa della religione. Ma il "no" a Dio ha prodotto crudeltà e una violenza senza misura, che è stata possibile solo perché l’uomo non riconosceva più alcuna norma e alcun giudice al di sopra di sé, ma prendeva come norma soltanto se stesso. Gli orrori dei campi di concentramento mostrano in tutta chiarezza le conseguenze dell’assenza di Dio.
Qui non vorrei però soffermarmi sull’ateismo prescritto dallo Stato; vorrei piuttosto parlare della "decadenza" dell’uomo, in conseguenza della quale si realizza in modo silenzioso, e quindi più pericoloso, un cambiamento del clima spirituale. L’adorazione di mammona, dell’avere e del potere, si rivela una contro-religione, in cui non conta più l’uomo, ma solo il vantaggio personale. Il desiderio di felicità degenera, ad esempio, in una brama sfrenata e disumana quale si manifesta nel dominio della droga con le sue diverse forme. Vi sono i grandi, che con essa fanno i loro affari, e poi i tanti che da essa vengono sedotti e rovinati sia nel corpo che nell’animo. La violenza diventa una cosa normale e minaccia di distruggere in alcune parti del mondo la nostra gioventù. Poiché la violenza diventa cosa normale, la pace è distrutta e in questa mancanza di pace l’uomo distrugge se stesso.
L’assenza di Dio porta al decadimento dell’uomo e dell’umanesimo. Ma dov’è Dio? Lo conosciamo e possiamo mostrarLo nuovamente all’umanità per fondare una vera pace? Riassumiamo anzitutto brevemente le nostre riflessioni fatte finora. Ho detto che esiste una concezione e un uso della religione attraverso il quale essa diventa fonte di violenza, mentre l’orientamento dell’uomo verso Dio, vissuto rettamente, è una forza di pace. In tale contesto ho rimandato alla necessità del dialogo, e parlato della purificazione, sempre necessaria, della religione vissuta. Dall’altra parte, ho affermato che la negazione di Dio corrompe l’uomo, lo priva di misure e lo conduce alla violenza.
Accanto alle due realtà di religione e anti-religione esiste, nel mondo in espansione dell’agnosticismo, anche un altro orientamento di fondo: persone alle quali non è stato dato il dono del poter credere e che tuttavia cercano la verità, sono alla ricerca di Dio. Persone del genere non affermano semplicemente: "Non esiste alcun Dio". Esse soffrono a motivo della sua assenza e, cercando il vero e il buono, sono interiormente in cammino verso di Lui. Sono "pellegrini della verità, pellegrini della pace". Pongono domande sia all’una che all’altra parte. Tolgono agli atei combattivi la loro falsa certezza, con la quale pretendono di sapere che non c’è un Dio, e li invitano a diventare, invece che polemici, persone in ricerca, che non perdono la speranza che la verità esista e che noi possiamo e dobbiamo vivere in funzione di essa. Ma chiamano in causa anche gli aderenti alle religioni, perché non considerino Dio come una proprietà che appartiene a loro così da sentirsi autorizzati alla violenza nei confronti degli altri. Queste persone cercano la verità, cercano il vero Dio, la cui immagine nelle religioni, a causa del modo nel quale non di rado sono praticate, è non raramente nascosta. Che essi non riescano a trovare Dio dipende anche dai credenti con la loro immagine ridotta o anche travisata di Dio. Così la loro lotta interiore e il loro interrogarsi è anche un richiamo per i credenti a purificare la propria fede, affinché Dio – il vero Dio – diventi accessibile. Per questo ho appositamente invitato rappresentanti di questo terzo gruppo al nostro incontro ad Assisi, che non raduna solamente rappresentanti di istituzioni religiose. Si tratta piuttosto del ritrovarsi insieme in questo essere in cammino verso la verità, dell’impegno deciso per la dignità dell’uomo e del farsi carico insieme della causa della pace contro ogni specie di violenza distruttrice del diritto. In conclusione, vorrei assicurarvi che la Chiesa cattolica non desisterà dalla lotta contro la violenza, dal suo impegno per la pace nel mondo. Siamo animati dal comune desiderio di essere "pellegrini della verità, pellegrini della pace".

mercoledì 26 ottobre 2011

Lo 'straordinario' della vita cristiana di Dietrich Bonhoeffer

Le beatitudini
Gesù sulle pendici di un monte, il popolo, i discepoli. Il popolo vede: Gesù con i discepoli che si sono avvicinati a lui. I discepoli - essi stessi - sino a poco tempo prima facevano completamente parte della massa del popolo. Erano come tutti gli altri. Poi li raggiunse la chiamata di Gesù; abbandonarono tutto e lo seguirono. Da allora appartengono completamente a Gesù. Ora vanno con lui, vivono con lui, lo seguono dovunque egli li conduce. A loro è accaduto qualcosa che non è accaduta agli altri. È un fatto estremamente inquietante, scandaloso quello che il popolo vede qui con i suoi occhi. I discepoli vedono: il popolo dal quale provengono, le pecore perdute della casa di Israele. È la comunità chiamata da Dio. :È la chiesa di popolo. Quando essi furono, dalla chiamata di Gesù, scelti in mezzo a questo popolo, essi fecero quello che era naturale e necessario per le pecore perdute della casa di Israele: seguirono la voce del buon pastore, perché conoscevano la sua voce. Essi, proprio seguendo questa via, appartengono a questo popolo, vivranno in mezzo a questo popolo, entreranno in mezzo a questo popolo e gli annunzieranno la chiamata di Gesù e la gloria del cammino al suo seguito. Ma quale sarà la fine? Gesù vede: i suoi discepoli. Sono venuti apertamente dal popolo a lui. Egli li ha chiamati a uno a uno. Alla sua chiamata essi hanno rinunciato a tutto. Ora vivono soffrendo indigenza e privazioni; sono i più poveri tra i poveri, i più tentati tra gli esposti alla tentazione, i più affamati tra gli affamati. Hanno solo lui. E, con lui, nel mondo non hanno nulla, proprio nulla. Ma presso Dio hanno tutto. Egli ha trovato una piccola comunità, e ne cerca una grande quando guarda il popolo. Discepoli e popolo formano un tutt'uno; i discepoli saranno i suoi messaggeri, essi troveranno pure, qua e là, degli uditori e dei credenti. Eppure, tra loro e il popolo regnerà inimicizia fino alla fine. Tutta l'ira contro Dio e la sua Parola ricadrà sui suoi discepoli ed essi saranno respinti assieme a lui. La croce è in vista. Cristo, i discepoli, il popolo: ecco tutto il quadro della passione di Gesù e della sua comunità. (1)
Perciò: beati! Gesù parla ai suoi discepoli (cfr. Lc. 6,20 ss.). Parla a coloro che già si sono posti sotto la potenza della sua chiamata. Questa chiamata li ha resi poveri, tentati, affamati. Egli li dichiara beati, non per le loro privazioni o la loro rinuncia. Né povertà né ritmncia sono per se stesse in qualche modo motivo della proclamazione di beatitudine. Solo la chiamata e la promessa, per cui i suoi seguaci vivono in mezzo a privazioni e a rinunce, è motivo sufficiente. L'osservazione,che in qualcheduna delle beatitudini si parla di privazione, in altre di cosciente rinuncia, cioè di particolari virtù dei discepoli, non ha importanza. Privazione obiettiva e rinuncia personale hanno la loro ragione comune nella chiamata e nella promessa di Cristo. Nessuna delle due ha, per se stessa, valore o diritto. (2)
Gesù chiama beati i suoi discepoli. Il popolo l'ode ed esterrefatto è testimone di ciò che accade. Ciò che, secondo la promessa di Dio, appartiene a tutto il popolo di Israele qui tocca alla piccola comunità di discepoli scelti da Gesù. «Di loro è il regno dei cieli». Ma i discepoli e il popolo sono una cosa sola per il fatto che sono tutti comunità chiamata da Dio. Le beatitudini di Gesù dovranno portare tutti alla decisione e alla salvezza. Tutti sono chiamati a essere ciò che in realtà sono. I discepoli vengono proclamati beati a causa della chiamata di Gesù, alla quale hanno risposto. Tutto il popolo di Dio viene chiamato beato per la promessa a lui diretta. Ma il popolo di Dio afferrerà la promessa credendo a Gesù Cristo e alla sua Parola o si separerà, non credendo, da Cristo e dalla sua comunità? Ecco la domanda che resta aperta.
«Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli». I discepoli subiscono privazioni in tutti i campi. Sono semplicemente dei 'poveri' (Lc. 6,20). Non hanno sicurezza, non beni da chiamare propri, non un pezzo di terra da chiamare patria, nessuna comunità terrena a cui appartenere completamente. Ma non hanno neppure una propria forza spirituale, una propria esperienza, una propria sapienza alla quale richiamarsi, con la quale consolarsi. Hanno perso tutto questo per amore di Gesù. Quando si incamminarono dietro a lui, persero pure se stessi e così anche tutto ciò che avrebbe potuto ancora arricchirli. Ora sono poveri, così inesperti, così stolti da non avere più nulla in cui sperare tranne colui che li ha chiamati. Gesù conosce anche quegli altri, i rappresentanti e i predicatori della religione di popolo, questi potenti, rispettati, che stanno ben fondati in terra, radicati nel carattere nazionale, nello spirito del tempo, nella religiosità popolare. Non sono, però, questi, ma solo i suoi discepoli che Gesù chiama «beati, perché di loro è il regno dei cieli». Il regno dei cieli viene per quelli che, per amore di Gesù, vivono semplicemente «in privazioni e rinunce». In mezzo alla loro povertà essi sono gli eredi del regno celeste. Essi hanno il loro tesoro profondamente nascosto, lo hanno sulla croce. Il regno dei cieli è loro promesso in gloria visibile, ed è già donato a loro nella perfetta povertà della croce.
Qui le beatitudini di Gesù si distinguono radicalmente dalla loro caricatura in forma di programmazione politico-sociale. Anche l'anticristo chiama beati i poveri, ma non lo fa per amore della croce, nella quale è insita e beata ogni povertà, ma lo fa appunto per allontanare dalla croce mediante ideologie politico-sociali. Egli può chiamare cristiana questa ideologia, eppure proprio perciò diviene nemico di Cristo.
«Beati gli afflitti, perché saranno consolati». Con ogni ulteriore beatitudine la frattura fra discepoli e popolo diviene maggiore. La schiera dei discepoli viene chiamata fuori in forma sempre più visibile. Gli afflitti sono appunto quelli che sono pronti a vivere rinunciando a ciò che il mondo chiama felicità e pace, quelli che non possono essere accordati allo stesso tono del mondo, che non possono adeguarsi al mondo. San afflitti a causa del mondo, della sua colpa, del suo destino e della sua felicità. Il mondo festeggia e loro se ne stanno in disparte; il mondo grida: «godete la vita», e loro sono afflitti. Vedono che la nave, sulla quale domina questa gioiosa festa, ha già una falla. Il mondo segue il progresso, la forza, il futuro; i discepoli sanno che la fine è vicina, che verrà il giudizio, che sta arrivando il regno dei cieli, per il quale il mondo è così poco adatto. Perciò i discepoli sono stranieri nel mondo, ospiti fastidiosi, disturbatori della tranquillità, e vengono respinti. Perché la comunità di Gesù deve restare esclusa da tante feste del popolo in mezzo al quale vive? Non capisce più gli altri uomini? Si è fatta prendere dall'odio e dal disprezzo per gli uomini? Nessuno comprende i suoi simili meglio della comunità di Gesù. Nessuno ama i suoi simili più dei discepoli di Gesù, appunto perciò sono esclusi. appunto perciò sono afflitti. È sintomatico e anche bello che Lutero traduca il vocabolo greco con: portare dolore. Infatti l'importanza sta nel 'portare'. La comunità dei discepoli non si scuote di dosso il dolore come se non la toccasse per nulla, ma lo porta. E su questo si fonda la sua comunione con gli altri uomini. Contemporaneamente questo vocabolo dice che la comunità non cerca arbitrariamente il dolore, che non si ritira per un arbitrario disprezzo dal mondo, ma porta dò che le viene imposto, ciò che le tocca per amore di Gesù Cristo, mentre lo segue. Ed infine, i discepoli non vengono piegati, logorati, amareggiati dal dolore, in modo da esserne spezzati. Anzi, portano il dolore loro imposto solo per la forza di colui che sulla croce porta tutto il dolore. Come «portatori di dolore» si trovano in comunione col Signore crocifisso. Vivono come stranieri sostenuti dalla forza di colui che era tanto straniero in terra che fu crocifisso. Questo fatto, o meglio quest'uomo è la loro consolazione, il loro consolatore (Lc. 2,15). La comunità degli stranieri trova consolazione nella croce, trova consolazione nel fatto che viene respinta al luogo dove il consolatore di Israele la attende. Essa trova la sua vera patria presso il Signore crocifisso, qui e in eterno.
«Beati i miti, perché possederanno la terra». Nessun diritto proprio protegge questa comunità di stranieri nel mondo. Non lo pretende nemmeno, perché i miti di cuore sono coloro che vivono rinunciando ad ogni proprio diritto per amore di Gesù Cristo. Se li si rimprovera tacciono, se si usa loro violenza la sopportano, se li si caccia cedono. Non fanno processi per difendere il proprio diritto, non fanno chiasso se subiscono ingiustizia. Non cercano il proprio diritto. Vogliono lasciare ogni diritto a Dio; non cupidi vindictae, diceva la chiesa antica. Ciò che piace al loro Signore deve piacere anche a loro. Solo questo. Ogni loro parola, ogni gesto manifesta che non appartengono a questa terra. «Lasciate loro il cielo», così dice pieno di compassione il mondo; «lì è il loro postO».3 Ma Gesù dice: «possederanno la terra». La terra appartiene a questi uomini senza diritti, impotenti. Quelli che ora la occupano con violenza e ingiustizia la perderanno; e quelli che qui hanno completamente rinunziato, che erano miti fino alla croce domineranno sulla nuova terra. Non si tratta qui di pensare ad una giustizia punitiva di Dio in terra (Calvino), ma quando il regno dei cieli sarà istaurato, la forma della terra sarà rinnovata e sarà la terra della comunità di Cristo. Dio non abbandona la terra. Egli l'ha creata. Ha mandato suo Figlio in terra. Ha edificato la sua comunità in terra. Così il regno incomincia già in questo tempo. Un segno è stato dato. Già qui agli impotenti è data una parte di terra, hanno la chiesa, la comunità, i loro beni, fratelli e sorelle - in mezzo alla persecuzione fino alla croce. Anche Golgota è un pezzo di terra. Da Golgota, dove il più mite morì, parte il rinnovamento della terra. Se viene il regno dei cieli, i miti possederanno la terra.
«Beati gli affamati e assetati di giustizia, perché saranno saziati». Chi segue Cristo non vive rinunciando solo al proprio diritto, ma persino rinunciando alla propria giustizia. Con le proprie azioni e con i propri sacrifici non si acquista nessuna gloria propria. Non si può ottenere giustizia se non essendone affamato e assetato; né giustizia propria né giustizia di Dio in terra; lo sguardo del seguace è sempre rivolto alla futura giustizia di Dio, ma non può crearla lui stesso. Chi segue Gesù sarà affamato e assetato durante il cammino. Desidera perdono dei peccati e totale rinnovamento della terra e perfetta giustizia di Dio. Ancora la maledizione copre la terra, ancora il peccato dei mondo cade su di lui. Colui che egli segue deve morire maledetto sulla croce. Un disperato desiderio di giustizia è il suo ultimo grido: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?». Ma il discepolo non è al di sopra dei suo Maestro. Segue lui; è beato in questo cammino perché gli è stato promesso che sarà saziato. Otterrà giustizia, non solo a parole; sarà fisicamente saziato di giustizia. Mangerà il pane della vera vita nella futura Cena con il suo Signore. È beato per questo futuro pane; perché lo ha già qui presente. Colui che è il pane della vita è in mezzo ai suoi discepoli, in tutta la loro fame. Ecco la beatitudine dei peccatori.
«Beati i misericordiosi, perché a loro sarà fatta misericordia». Questi nulla tenenti, questi stranieri, questi impotenti, questi peccatori, questi seguaci di Cristo vivono con lui ora rinunciando anche alla propria dignità, poiché sono misericordiosi. Non si accontentano delle proprie difficoltà, delle proprie privazioni, ma partecipano pure alle difficoltà altrui, alla bassezza altrui, al peccato altrui. Hanno un amore irresistibile per i piccoli, gli ammalati, i miserabili, gli umiliati e oltraggiati, per quelli che subiscono ingiustizie, per gli esclusi, per tutti quelli che si tormentano e si preoccupano; cercano quelli che sono caduti nel peccato e nella colpa. Non c'è difficoltà troppo grave, peccato troppo terribile, perché la misericordia non li cerchi. Il misericordioso dona il proprio onore a chi si è macchiato di vergogna e prende su di sé la sua vergogna. Egli si fa trovare presso i pubblicani e i peccatori e subisce volontariamente il disonore della loro compagnia. Cede il massimo bene che un uomo possa avere, la propria dignità ed il proprio onore, ed è misericordioso. Conosce solo una dignità e un onore: la misericordia del Signore, della quale sola egli vive. Gesù non si vergognò dei suoi discepoli, divenne fratello degli uomini, portò la loro vergogna fino alla morte sulla croce. Questa è la misericordia di Gesù, della quale sola vogliono vivere quelli che sono legati a lui. La misericordia del Cristo crocifisso fa loro dimenticare ogni proprio onore e dignità e cercare solo la compagnia dei peccatori. E se anche sono coperti di vergogna sono pure beati. Perché sarà fatta loro misericordia. Dio si chinerà profondamente su di loro e prenderà su di sé i loro peccati e la loro vergogna. Dio darà loro il suo onore e lui stesso toglierà loro il loro disonore. Sarà l'onore di Dio a portare l'infamia dei peccatori e a rivestirli del suo onore. Beati i misericordiosi, perché hanno per Signore il Misericordioso.
«Beati i puri di cuore, perché essi vedranno Dio». Chi è puro di cuore? Solo chi ha dato totalmente il suo cuore a Gesù, perché lui solo vi regni; chi non macchia il proprio cuore del proprio male, ma neppure del proprio bene. Il cuore puro è il cuore semplice del bambino, che non sa che cosa è bene e che cosa male, il cuore di Adamo prima della caduta, il cuore nel quale non domina la coscienza, ma solo la volontà di Gesù. Chi rinuncia alle proprie azioni buone e malvagie, al proprio cuore, chi vive così nel pentimento e resta unito solo a Gesù avrà un cuore puro per opera della Parola di Gesù. La purezza del cuore è qui il contrario di ogni purezza esteriore, di cui fa parte anche la purezza dei buoni sentimenti. Il cuore puro è puro dal bene e dal male, appartiene indiviso a Cristo, guarda solo a lui che precede. Vedrà Dio solo chi, in questa vita, ha guardato unicamente a Gesù Cristo, il Figlio di Dio. Il suo cuore è libero da immagini che possano macchiarlo, non è trascinato or qui or lì dalla molteplicità dei propri desideri e delle proprie intenzioni. È tutto intento a guardare Dio. Vedrà Dio colui il cui cuore è divenuto specchio dell'immagine di Gesù Cristo.
«Beati quelli che s'adoprano alla pace, perché essi saranno chiamati figlioli di Dio». I seguaci di Cristo sono chiamati alla pace. Quando Gesù li chiamò essi trovarono la loro pace. Gesù è la loro pace. Ora non devono accontentarsi della loro pace, devono anche farla. (4) Questo vuol dire rinunciare a violenza e ribellione. Queste infatti non servono mai alla causa di Cristo. Il regno di Cristo è un regno di pace, e la comunità di Cristo si scambia il saluto di pace. I discepoli di Gesù mantengono la pace soffrendo loro stessi il male piuttosto di fame ad altri; conservano la comunione dove un altro la rompe, rinunciando all'auto affermazione e subiscono in silenzio odio e ingiustizia. Così vincono il male con il bene. Essi diffondono la pace divina in mezzo ad un mondo che si nutre di odio e di guerra. Ma la loro pace non sarà da nessuna parte maggiore che lì dove vanno incontro al malvagio offrendogli pace e sono pronti a subire del male da parte sua. I pacifici porteranno la croce con il loro Signore: infatti sulla croce fu conclusa la pace. Essendo così attirati nell'opera di pace di Cristo, chiamati a partecipare all'opera del Figlio di Dio, essi stessi saranno chiamati figli di Dio.
«Beati i perseguitati per cagione di giustizia, perché di loro è il regno dei cieli». Non si parla qui della giustizia di Dio, ma della sofferenza per una causa giusta, (5) per il giudizio e l'azione giusta dei discepoli di Gesù. Coloro che seguono Gesù rinunziando a beni terreni, a felicità, al diritto, alla giustizia, all'onore, alla violenza si distingueranno dal mondo nel giudizio e nell'azione, saranno di scandalo al mondo. Perciò i discepoli saranno perseguitati per cagione di giustizia. Il premio delle loro parole ed azioni non sarà riconoscenza, ma riprovazione da parte del mondo. È importante che Gesù chiami beati i suoi discepoli anche lì dove non soffrono direttamente per la testimonianza del suo nome, ma per una causa giusta. È loro rivolta la stessa promessa che ai poveri. Come perseguitati, infatti, sono uguali a questi.
Qui alla fine delle beatitudini sorge la domanda, quale luogo in terra resti ancora a una simile comunità. È chiaro che a loro resta solo un posto, cioè quello dove si trova il più povero, il più esposto alla tentazione, il più mite, la croce sul Golgota. La comunità delle beatitudini è la comunità del Cristo crocifisso. Con lui ha perso tutto e con lui ha trovato proprio tutto. Partendo dalla croce ora si dice: «beati, beati». Ma ora Gesù parla esclusivamente a quelli che possono comprenderlo, ai discepoli, perciò usa la seconda persona: «Beati voi, quando v'oltraggeranno e vi perseguiteranno e mentendo diranno male di voi per causa mia. Gioite ed esultate, perché molta è la vostra ricompensa nei cieli; così infatti perseguitarono i profeti prima di voi». «Per causa mia...» i discepoli vengono ripudiati, ma è Gesù stesso a essere colpito; tutto ricade su di lui, perché essi sono oltraggiati per cagione sua. Egli porta la colpa. L'oltraggio, la persecuzione fino alla morte, la maldicenza sigillano la beatitudine dei discepoli nella loro comunione con Gesù. Non può essere altrimenti, se non che il mondo si sfoghi con parole, violenza, calunnia contro lo straniero mite. Troppo minacciosa, troppo forte è la voce di questi poveri e miti, troppo paziente e silenziosa la loro sofferenza; troppo potentemente la schiera dei discepoli testimonia, mediante povertà e dolore, dell'ingiustizia del mondo. Questo deve essere punito con la morte. Mentre Gesù grida: «Beati, beati! », il mondo grida: «via! via!». Sì, via, ma dove? Nel regno dei cieli. Rallegratevi e giubilate, perché il vostro premio è grande nei cieli. Ecco i poveri nella sala addobbata a festa. Dio stesso asciuga le lacrime versate dagli afflitti in esilio, sazia gli affamati con la sua Cena. I corpi feriti e martoriati ora sono trasfigurati, e al posto delle vesti del peccato e della penitenza portano le vesti bianche dell'eterna giustizia. Da questa eterna letizia già ora una voce giunge alla comunità dei seguaci sotto la croce, la voce di Gesù: «Beati, beati».
[1] La giustificazione esegetica di questa interpretazione sta nella espressione anoigen to stoma, sulla quale già nell' esegesi della chiesa primitiva si attirava l'attenzione. Prima che Gesù inizi il suo discorso, passano alcuni minuti di silenzio.
[2] La costruzione di un contrasto tra Matteo e Luca non trova nessuna ragione nella Scrittura. Non si tratta di una spiritualizzazione, da parte di Matteo, delle beatitudini originali in Luca, né di una politicizzazione delle beatitudini da parte di Luca, dicendo che in origine si sarebbero solo riferite alla «disposizione d'animo». Né in Luca la ragione della beatitudine è la privazione, né in Matteo la rinunzia. In ambedue privazione e rinuncia, atteggiamento spirituale o politico, sono giustificate solo dalla chiamata e dalla promessa di Gesù, che solo fa delle beatitudini ciò che sono, e che è il solo fondamento della loro beatificazione. L'esegesi cattolica, a partire dai Clementini, ha voluto proclamare beatitudine la virtù della povertà pensando d'un canto alla paupertas valuntaria dei monaci, d'altro canto ad ogni povertà volontà. ria per amore di Cristo. In ambedue i casi l'errore consiste nel fatto che la ragione della beatitudine non viene ricercata solo nella chiamata e promessa di Gesù, ma in un comportamento umano.
[3] L'imperatore Giuliano nella sua 43ma lettera scriveva beffardamente, che confiscava i beni dei cristiani solo perché potessero entrare poveri nel regno dei cieli.
[4] eirenopoioi ha un duplice senso: anche l'espressione 'pacifici' secondo l'interpretazione non deve essere presa solo in senso passivo. La traduzione inglese peaamakers (= facitori di pace) è unilaterale a causa di un molteplice attivismo cristiano frainteso.
[5] Attenzione alla mancanza di articolo!

La comunità visibile
«Voi siete il sale della terra; ma se il sale diventa insipido, con che lo si salerà? Non serve più ad altro che ad essere buttato via e ad essere calpestato dagli uomini. V ai siete la luce del mondo. Non si può nascondere una città posta sul monte, né accendono una lucerna e la pongono sotto il maggio, ma sul candelabro, affinché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così splenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vr:dano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli» (Mt.5,13-16).
La parola è rivolta a coloro che, nelle beatitudini, sono invitati alla grazia di seguire il Cristo crocifisso.
Mentre quelli che venivano chiamati beati fino a qui dovevano apparire, sì, degni del regno dei cieli, ma evidentemente del tutto superflui e inadatti alla vita in questa terra, ora vengono caratterizzati con il simbolo del bene più indispensabile sulla terra. Essi sono il sale della terra. Sono il bene più nobile, il massimo valore che la terra possiede. Senza di loro la terra non può sussistere. La terra viene mantenuta per mezzo del sale; essa vive proprio per questi poveri, ignobili, deboli, che il mondo ripudia. La terra distrugge la sua propria vita espellendo i discepoli e - o meraviglia! - la terra può continuare a vivere proprio a causa di questi reietti. Questo «sale divino» (Omero) dà prova della sua efficacia, compenetra tutta la terra. È la sua sostanza. Così i discepoli non sono indirizzati solo verso il regno dei cieli, ma vie n loro ricordata la loro missione terrena. Essendo legati unicamente a Gesù, la loro attenzione viene rivolta verso la terra, di cui essi sono il sale. Gesù, non chiamando sale della terra se stesso, ma i suoi discepoli, trasmette a loro la sua opera sulla terra. Egli li rende partecipi della sua attività. La sua azione resta limitata al popolo di Israele, ma ai discepoli egli affida tutta la terra. Solo se il sale resta sale, se conserva la forza del sale che purifica e dà sapore alla terra, la terra potrà essere conservata per opera del sale. Per amore di se stesso e per amore della terra il sale deve restare sale, la comunità dei discepoli deve restare ciò che è in seguito alla chiamata di Gesù Cristo; in questo consisterà la sua vera efficacia in terra, la sua forza conservatrice. Il sale deve essere incorruttibile e così conservare una costante forza purificatrice. Per questo nell'Antico Testamento ci si serve del sale per compiere i sacrifici; per questo nel rito battesimale cattolico si mette del sale nella bocca del bambino (Es. 30,35; Ez. 16,4). Nella incorruttibilità del sale sta la garanzia della durevolezza della comunità.
«Voi siete il sale...», non: siate il sale. Non dipende dalla volontà dei discepoli, se vogliono essere il sale o no. E non è nemmeno loro rivolto un appello di divenire sale della terra. Essi lo sono, lo vogliano o no, grazie alla chiamata che li ha raggiunti. Siete il sale, e non: avete il sale. Sarebbe una riduzione, se si volesse identificare - come fecero i riformatori - il messaggio dei discepoli con il gale. È chiamata in causa la loro esistenza, in quanto con la chiamata di Cristo a seguirlo ha avuto un nuovo fondamento, l'esistenza della quale parlano le beatitudini. Chi, raggiunto dalla chiamata di Gesù, si è messo al suo seguito è, a causa di questa chiamata, sale della terra in tutta la sua esistenza.
C'è un'altra possibilità, però, che il sale perda il suo sapore, cessi di essere sale: allora cessa la sua efficacia, e il sale realmente non serve più a nulla se non a essere gettato via. Questo è il pregio del sale: ogni cosa deve essere salata; ma il sale che perde il suo sapore non può essere mai più salato. Tutto, anche la materia più corrotta, può essere salvato dal sale; solo il sale che ha perso il suo sapore è definitivamente deteriorato. Questo è il rovescio della medaglia. È il giudizio che minaccia la comunità dei discepoli. La terra deve essere salvata dalla comunità, solo la comunità stessa che cessa di essere ciò che è, è irrimediabilmente perduta. La chiamata di Gesù Cristo significa essere sale della terra o essere distrutti, seguire o...; la chiamata stessa annienta il chiamato. Non c'è un'altra possibilità di salvezza. Non può esserci.
Con la chiamata di Gesù ai discepoli non è solo assicurata l'invisibile efficacia del sale, ma anche il visibile splendore della luce. «Voi siete la luce...», e di nuovo non: siate la luce. Non può essere altrimenti; essi sono una luce che è visibile; se non fosse così, la chiamata evidentemente non li avrebbe raggiunti. Quale mèta impossibile, insensata sarebbe per i discepoli di Gesù per questi discepoli, voler diventare la luce del mondo! Lo sono già divenuti per mezzo della chiamata, essendo in cammino dietro a Gesù. E di nuovo, non è detto: avete la luce, ma: voi siete la luce. La luce non è qualcosa che vi è stato dato, non è, per es., la vostra predicazione; voi stessi siete la luce. Quello stesso che dice di sé espressamente: «la sono la luce del mondo», dice espressamente ai suoi discepoli: «Voi siete la luce in tutta la vostra vita, in quanto restate fedeli alla chiamata. E dato che lo siete, non potete più rimanere nascosti, anche se lo voleste. Una luce risplende, e la città sul monte non può rimanere nascosta. Non lo può. È visibile da lontano, sia che si tratti di una città fortificata a di un castello ben munito, sia che si tratti solo di qualche rovina». Questa città sul monte - quale Israelita non penserebbe a Gerusalemme, la città «sull'alta montagna?» - è la comunità dei discepoli. I seguaci in tutto ciò non sono più posti di fronte ad una scelta; l'unica scelta per loro possibile è già stata fatta. Ora essi devono essere ciò che sono, o non sono seguaci di Gesù. Quelli che lo seguono sono la comunità visibile, il loro seguire è una azione visibile, che li distingue dal mondo... o non è proprio un seguire Gesù. Seguire Gesù è un'azione altrettanto visibile quanto la luce nella notte e quanto un monte che si eleva in una pianura.
La fuga nell'invisibilità è rinnegamento della chiamata. Una comunità di Gesù che vuol restare comunità invisibile non è più una comunità che segue Gesù. «Non si accende una lampada per metterla sotto il maggio; anzi, la si mette sul candeliere». È di nuovo l'altra possibilità, che la luce sia coperta, che si spenga sotto un maggio, che la chiamata venga rinnegata. Il maggio sotto cui la comunità visibile nasconde la sua luce può essere altrettanto paura degli uomini quanto un cosciente conformismo col mondo per conseguire determinati scopi - siano essi di carattere missionario, siano essi dovuti a un malinteso amore per gli uomini -. Ma potrebbe anche essere - e questo è ancora più pericoloso - una cosiddetta teologia riformata che osa persino chiamarsi theologia crucis e che è caratterizzata dal fatto che alla 'farisaica' visibilità preferisce una 'umile' invisibilità sotto forma di totale incorporazione nel mondo. In questo caso segno di riconoscimento' della comunità non è una eccezionale visibilità, ma una sua conferma nella iustitia civilis. Qui il criterio di cristianità è che la luce non splenda. Ma Gesù dice: «La vostra luce risplenda nel cospetto degli uomini». E in ogni caso la luce della chiamata di Gesù splende. Ma che specie di luce è, dunque, quella in cui questi seguaci di Gesù, questi discepoli delle beatitudini devono splendere? Che luce deve venire da quel luogo al quale hanno diritto solo i discepoli? Che cosa ha in comune l'invisibilità e segretezza della croce di Gesù, sotto la quale si trovano i suoi discepoli, con la luce che deve risplendere? Non si dovrebbe dedurre da quella segretezza che anche i discepoli dovrebbero rimanere nascosti e appunto non essere in luce? È un diabolico sofisma quello che dalla croce di Gesù vuole dedurre la conformità della Chiesa col mondo. Il semplice uditore non riconosce forse chiaramente che proprio lì sulla croce è divenuto visibile qualcosa di eccezionale? Oppure tutto ciò sarebbe iustitia civilis) la croce sarebbe conformità con il mondo? La croce non è forse qualcosa che, con sommo turbamento degli altri, proprio in tutta la sua oscurità è divenuta incredibilmente visibile? Non è forse abbastanza visibile che Cristo è respinto e deve patire, che la sua vita finisce fuori delle porte della città sul colle dell'ignominia? Tutto questo sarebbe invisibilità?
In questa luce devono essere viste le buone opere dei discepoli. Non voi, ma le vostre buone opere, ecco ciò che si deve vedere, dice Gesù. Che cosa sono queste buone opere che possono essere viste in questa luce? Non possono essere altro che le opere che Gesù stesso suscitò in loro quando li chiamò, quando li fece luce del mondo sotto la sua croce: essere poveri, stranieri, miti, apportatori di pace, ed infine, essere perseguitati e respinti, ed in tutto ciò una sola cosa: portare la croce di Gesù. La croce è la strana luce che risplende, e in questa sola tutte quelle buone opere dei discepoli possono essere viste. In tutto ciò non è detto che Dio divenga visibile, ma che si vedono le «buone opere» e che, per queste opere, la gente loda Dio. Visibile diventa la croce e visibili diventano le opere della croce, visibili diventano le privazioni e la rinunzia di quelli che sono chiamati beati. Ma nella luce della croce e di questa comunità non si può più lodare l'uomo, ma Dio solo. Se le buone opere fossero varie virtù di uomini, allora per esse non si loderebbe più il Padre, ma il discepolo. Ma così non resta nulla di degno di lode nel discepolo che porta la croce, nella comunità la cui luce risplende ed è visibile sul monte: per le loro «buone opere» solo il Padre celeste può essere lodato. Così vedono la croce e la comunità sotto la croce e credono in Dio. Ma questa è la luce della risurrezione.
La giustizia di Cristo
«Non crediate che io sia venuto ad abolire la legge o i profeti; non sono venuto ad abolire, ma a completare. In verità vi dico che fino a quando non passeranno il cielo e la terra, uno iota solo o un solo apice non passerà dalla legge fino a che non sia tutto adempiuto. Chi dunque avrà abolito anche uno solo di questi minimi comandamenti e così avrà insegnato agli uomini, sarà chiamato il più piccolo nel regno dei cieli, ma chi li osserverà ed insegnerà, sarà chiamato grande nel regno dei cieli, poiché vi dico che, se la vostra giustizia non sarà maggiore di quella degli scribi e farisei, non entrerete nel regno dei cieli». (Mt.5,17-20).
Non ci si deve certo meravigliare se i discepoli, sentendo dal loro Signore queste promesse, nelle quali era svalutato tutto ciò che agli occhi del popolo aveva valore, ritenevano arrivata la fine della legge. Infatti la Parola era rivolta a loro e li contraddistingueva come uomini a cui era dato semplicemente tutto per libera grazia di Dio, come uomini che ora possedevano tutto, come eredi certi del regno dei cieli. Essi erano in piena comunione personale con il Cristo che rinnovava tutto. Erano il sale, la luce, la città sul monte. E allora tutte le cose vecchie erano passate, erano cambiate. Era, dunque, fin troppo logico che Gesù avrebbe provveduto a fare una netta separazione tra sé e il passato, che avrebbe dichiarata nulla la legge dell'antico patto e, nella sua libertà di Figlio, avrebbe rotto con questa legge e l'avrebbe abolita per la sua comunità. Da quanto precedeva i discepoli potevano pensare come Marcione, che, rimproverando al testo una falsificazione giudaistica, lo cambiò come segue: 'Credete voi che io sia venuto per compiere la legge o i profeti? Sono venuto per abolirla, non per completarla'. È infinito il numero di coloro che, dopo Marcione, hanno letto e spiegato la parola di Gesù in questo modo. Ma Gesù dice: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la legge o i profeti...» Gesù avvalora la legge dell'Antico Testamento.
Come possiamo spiegare questo fatto? Sappiamo che Gesù si rivolge ai suoi seguaci, a quelli che sono vincolati a Gesù Cristo solo. Nessuna legge aveva potuto impedire la comunione di Gesù con i suoi discepoli; questo risultò evidente nell'interpretazione di Le. 9,57 ss. Seguire Gesù vuoI dire unirsi a lui solo e immediatamente. Eppure qui, del tutto inaspettatamente, Gesù vincola i suoi discepoli alla legge dell'Antico Testamento. Con questo intende dire ai suoi discepoli due cose: che obbedire alla legge non significa ancora seguire Gesù, ma che anche una unione con la persona di Gesù Cristo senza obbedienza alla legge non può essere considerato un seguire Gesù. Egli rimanda quelli, a cui ha rivolto le sue promesse e donato la piena comunione con lui, proprio alla legge stessa. Poiché lui, dietro il quale i discepoli si sono incamminati, osserva la legge, la legge vale pure per loro. Allora sorge la domanda: «Che cosa vale: Gesù o la legge? A che cosa sono vincolato? A lui solo, oppure, nonostante tutto, alla legge? Cristo ha detto che nessuna legge può frapporsi fra lui e i suoi discepoli. Ora dice che un'abolizione della legge significherebbe separazione da lui. Che significa? ».
Si tratta della legge dell'antico patto, non di una legge nuova; ma dell'unica antica legge, alla quale fu rinviato il giovane ricco e il capzioso scriba; poiché essa esprime la manifesta volontà di Dio. Questo comandamento diviene un comandamento solo per il fatto che Cristo vincola i suoi seguaci a questa legge. Non si tratta, dunque, di creare una «legge migliore» di quella dei farisei; è la stessa legge, è la legge che deve restare intatta in ogni sua lettera, deve essere osservata fino alla fine del mondo, deve essere adempiuta fino al più piccolo iota. Ma si tratta certo di una «giustizia maggiore». Chi non ha questa giustizia maggiore non potrà entrare nel regno dei cieli, appunto perché in questo caso si sarebbe allontanato dal cammino al seguito di Gesù, che lo rimanda appunto alla legge. Ma nessuno è in grado di avere questa giustizia maggiore, se non colui a cui è rivolta la Parola, che viene chiamato da Cristo. La condizione per ottenere questa giustizia maggiore è la chiamata di Cristo, è Cristo stesso.
Così si comprende, perché Cristo a questo punto del discorso sulla montagna per la prima volta parla di se stesso. Tra la giustizia maggiore e i discepoli, dai quali Gesù la pretende, si trova lui stesso. Egli è venuto per compiere la legge dell'antico patto. È la premessa per tutto il resto. Gesù fa vedere la sua completa unità con la volontà di Dio espressa nell'Antico Testamento, nella legge e nei profeti. Egli, in realtà, non ha nulla da aggiungere ai comandamenti di Dio; egli li osserva... è l'unica cosa che aggiunge. Egli osserva la legge, ecco ciò che dice di se stesso. Perciò è vero. Egli la compie fino all'ultimo iota. Ma dato che egli la adempie, «tutto è compiuto» ciò che deve accadere per il suo completamento. Gesù farà ciò che la legge richiede, perciò dovrà subire la morte; perché lui solo vede nella legge la legge di Dio, cioè: né la legge stessa è Dio, né Dio stesso è la legge, in modo che la legge sarebbe messa al posto di Dio. Israele aveva frainteso così la legge. La colpa di Israele consisteva nell'aver divinizzato la legge e aver trasformato Dio in legge. Il colpevole malinteso dei discepoli sarebbe, invece, il voler privare la legge della sua origine divina e il separare Dio dalla sua legge. In ambedue i casi Dio e legge erano separati l'uno dall'altra, oppure identificati, il che, in fondo, è lo stesso. Se gli ebrei identificavano Dio e la legge, lo facevano per impadronirsi, con la legge, di Dio stesso. Dio era assorbito dalla legge e non era più il padrone della legge. Se i discepoli pensavano di poter separare Dio dalla sua legge, lo facevano per potersi impadronire di Dio, essendo sicuri della loro salvezza. In ambedue i casi donatore e dono venivano scambiati, si rinnegava Dio con l'aiuto della legge o della promessa della salvezza.
Di fronte ad ambedue questi malintesi Gesù rimette in vigore la legge come legge divina. Dio è donatore e signore della legge, e solo nella comunione personale con Dio la legge viene adempiuta. Non esiste obbedienza completa alla legge senza comunione con Dio, ma nemmeno comunione con Dio senza obbedienza alla legge. La prima osservazione vale per gli Ebrei, la seconda vale per i discepoli che rischiavano di fraintendere il senso della legge.
Gesù Figlio di Dio, che, unico, è pienamente in comunione con Dio, per amore suo rimette in pieno vigore la legge, venendo per compiere la legge dell'antico patto. Essendo l'unico che la osserva pienamente, lui solo poteva insegnare rettamente la legge e il suo compimento. I discepoli dovevano saperlo e comprenderlo, quando gliene parlò, perché sapevano chi egli era. Gli ebrei non potevano capirlo, finché non gli credevano. Perciò dovevano rifiutare il suo insegnamento sulla legge come bestemmia contro Dio, cioè contro la legge. Perciò Gesù, per amore della vera legge di Dio, dovette subire la condanna da parte dei difensori della falsa legge. Gesù muore sulla croce come blasfemo o come trasgressore della legge, perché ha messo in vigore la vera legge, contro la legge fraintesa e falsa.
La legge, dunque, non può essere adempiuta altrimenti, così dice Gesù, che con la crocifissione di Gesù come peccatore. Lui stesso, crocifisso, è il perfetto completamento della legge.
Con ciò è detto che Gesù Cristo, e solo lui, adempie la legge, perché lui solo è in completa comunione con Dio. Egli stesso si pone tra i suoi discepoli e la legge, ma la legge non può porsi fra lui e i suoi discepoli. La via dei discepoli verso l'adempimento della legge passa per la croce di Cristo. Così Gesù vincola di nuovo i suoi discepoli, rimandandoli alla legge, che lui solo adempie. Egli deve rifiutare la comunione senza la legge, perché sarebbe solo esaltazione, e quindi non un vero v!ncolo; anzi, sarebbe un completo svincolamento. La preoccupazione dei discepoli, che un loro vincolo con la legge possa separarli da Dio, viene dissipata. Essa potrebbe solo nascere dal fraintendimento della legge, la quale realmente separava gli ebrei da Dio. Invece qui diviene evidente che una vera unione con Gesù può essere data in dono solo a chi si vincola alla legge.
Se ora Gesù sta tra i suoi discepoli e la legge, non è certo per dispensarli di nuovo dall'osservanza della legge, ma per sottolineare la sua pretesa di adempimento della legge. Proprio perché legati a Gesù, i discepoli sono sottoposti alla stessa obbedienza. E altrettanto, con l'adempimento del minimo iota della legge, questo iota non è affatto liquidato per i discepoli. È compiuto, ecco tutto. Ma proprio perciò ora è in pieno vigore, così che un giorno sarà detto grande nel regno dei cieli chi mette in pratica e insegna la legge, «mette in pratica e insegna»...; si potrebbe anche pensare ad un insegnamento della legge che dispensi dall'azione, volendo solo che la legge serva, perché ci si renda conto che è impossibile osservarla. Ma tale dottrina non proviene da Gesù. La legge deve essere osservata, come lui l'ha osservata. Chi vuole seguire lui, che ha osservato la legge, seguendolo osserva e insegna la legge. Solo chi osserva la legge può restare in comunione con lui.
Non è la legge a distinguere i discepoli dall'ebreo, ma la «giustizia maggiore». La giustizia dei discepoli 'eccelle' su quella degli scribi. La supera, è qualcosa di straordinario, di singolare. Qui viene per la prima volta fatto cenno al concetto di [perisséuein], che nel versetto 47 acquisterà grandissima importanza. Dobbiamo chiedere: in che cosa consisteva la giustizia dei farisei? In che consiste la giustizia dei discepoli? Il fariseo certo non era mai caduto nell'errore di credere che, contrariamente alla scrittura, bastasse insegnare la legge senza osservarla. Il fariseo voleva osservare la legge. La sua giustizia consisteva nell'adempimento immediato e letterale di ciò che la legge ordina. La sua giustizia era data dall'azione. La sua meta era la totale conformità della sua azione con quanto la legge ordina. Ciononostante doveva sempre restare una parte che aveva bisogno del perdono. La sua giustizia resta incompleta, anche la giustizia dei discepoli poteva consistere solo nell'adempimento della legge. Nessuno, che non osservasse la legge, poteva essere chiamato giusto. Ma l'azione del discepolo supera quella dei farisei per il fatto che è realmente giustizia perfetta di fronte a quella imperfetta dei farisei. Come? La superiorità della giustizia del discepolo consiste nel fatto che tra lui e la legge sta colui che ha completamente adempiuto la legge, e che il discepolo vive in comunione con lui. Egli si è trovato non di fronte ad una legge incompiuta, ma di fronte ad una legge compiuta. Prima che egli incominci ad obbedire alla legge, la legge è già compiuta, è già stato soddisfatto alla legge in pieno. La giustizia richiesta dalla legge c'è già; è la giustizia di Gesù, che si lascia crocifiggere per amore della legge. Ma poiché questa giustizia non è solo un bene che deve essere messo in atto, ma è proprio la vera comunione personale con Dio, perciò Gesù non ha solo la giustizia, ma è lui stesso la giustizia. Egli è la giustizia dei discepoli. Per mezzo della sua chiamata Gesù ha reso i suoi discepoli partecipi di se stesso, ha loro donato la comunione con lui, li ha resi partecipi della sua giustizia, ha loro donato la sua giustizia. La giustizia dei discepoli è la giustizia di Cristo.
Solo per dire questo Gesù inizia le sue parole sulla «giustizia maggiore» con un richiamo all'adempimento della legge da parte sua. Ma la giustizia di Dio è veramente anche la giustizia dei discepoli. Certo, nel senso stretto della parola, resta giustizia donata, donata mediante la chiamata a seguirlo. È la giustizia che consiste appunto nel camminare dietro a lui, e già nelle beatitudini a questo viene promesso il regno dei cieli. La giustizia dei discepoli è giustizia sotto la croce. È la giustizia dei poveri, dei tentati, degli affamati, dei miti, degli apportatori di pace, dei perseguitati... per la chiamata di Gesù, la giustizia visibile di coloro che appunto in ciò sono la luce del mondo e la città sulla montagna... per la chiamata di Gesù. In questo la giustizia dei discepoli è 'maggiore' di quella dei farisei, perché si basa solo sull'invito a entrare in comunione con colui che, solo, ha compiuto la legge; in questo la giustizia dei discepoli è vera giustizia, che essi stessi ora fanno la volontà di Dio, osservano la legge. Anche la giustizia di Cristo non deve essere solo insegnata, ma messa in atto. Altrimenti non è maggiore della legge solo insegnata, ma non osservata. Tutto quanto segue si riferisce a questa messa in atto della giustizia di Cristo da parte dei discepoli. Detto in una parola: al cammino dietro a Gesù. È l'azione reale, semplice, compiuta nella fede nella giustizia di Cristo. La giustizia di Cristo è la nuova legge, la legge di Cristo.
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