DON ANTONIO

lunedì 30 aprile 2012

VITA ETERNA P. Alberto Maggi OSM

Gli ebrei del tempo della Bibbia, credevano nell'al di là?
In ebraico non esiste neppure questa espressione. (Il termine
'olam non ha il senso dell’eternità, ma di "tempo lontanissimo"
riferito sia al passato che al futuro.
La morte per gli ebrei era la fine di tutto: non esiste l’al di
là: tutti, buoni e cattivi, dopo morti si scende nello "Sheol", cioè
in quella che secondo la concezione mitologica della terra
dell'epoca, era considerata una enorme caverna sotterranea, dove
ridotti a larve, ad ombre, ci si nutre di polvere.
Questo era tutto quel che si credeva in Israele al riguardo
dell'al di là: tutti, buoni e cattivi, quando si muore si riceve la
stessa sorte: nella caverna sotterranea come spettri a mangiare
polvere: "i morti non vivranno più, le ombre non risorgeranno"
(Is 26,14).
Quando l'influsso della filosofia greca iniziò a farsi sentire
pure in Israele, e cominciarono a divulgarsi le dottrine
sull'immortalità dell'anima, verso il 200 a.C. un "predicatore" (è
questo il significato del termine ebraico Qoèlet [l’ecclesiaste] che
dà il titolo al suo libro), scrisse per contestare vivacemente queste
idee:
"La sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa;
come muoiono queste muoiono quelli; c'è un solo soffio vitale per
tutti. Non esiste superiorità dell'uomo rispetto alle bestie, perché
tutto è vanità. Tutti sono diretti verso la medesima dimora: tutto
e' venuto dalla polvere e tutto ritorna nella polvere." (Qo
3,19-21);
E ancora:
"Vi è una sorte unica per tutti, per il giusto e l'empio, per il puro
e l'impuro, il buono e per il malvagio. Questo è il male in tutto ciò
che avviene sotto il sole: una medesima sorte tocca a tutti” (Qo
9,2-3).
Visione pessimista che tocca il suo culmine quando proclama
che è "meglio un cane vivo che un leone morto. I vivi sanno che
moriranno, ma i morti non sanno nulla; non c'è più salario per
loro, perché il loro ricordo svanisce. Il loro amore, il loro odio e
la loro invidia, tutto ormai è finito” (9,4-6);
"Tutto ciò che devi fare, fallo finché ne sei in grado, perché non
ci sarà più nulla giù nello sheol, dove stai per andare" (Qo
9,10).
Questo era quanto pensava "il predicatore" duecento anni
prima di Gesù. (C’è da chiedersi quanti cristiani hanno un'idea
simile della vita dell'al di là... si lascia tutto, amori, interessi,
affetti, e si vive come anime beate e disincarnate in un mondo
senza colori...)
Non esistendo quindi un "al di là", la retribuzione per il bene e
il male compiuto avveniva su questa terra. Il bene era compensato
con una lunga vita, abbondanza di figli, prosperità. Il male veniva
punito con vita breve, sterilità e miseria, e la colpa dei padri veni-
va punita nei figli fino alla quarta generazione, secondo la teolo-
gia del libro del Deuteronomio: “Io “Yahvé tuo Dio sono un Dio
geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e
alla quarta generazione per quanti mi odiano” (Dt 5,9), poi cor-
retta all’interno dello stesso libro: “Non si metteranno a morte i
padri per una colpa dei figli, né si metteranno a morte i figli per
una colpa dei padri; ognuno sarà messo a morte per il proprio
peccato” (Dt 24,16):
Il profeta Ezechiele contesta questa visione della vita ed afferma
che Dio retribuisce sempre e subito le azioni dell'uomo e che o-
gnuno è responsabile del suo agire: “Colui che ha peccato e non
altri deve morire; il figlio non sconta l'iniquità del padre, né il
padre l'iniquità del figlio. Al giusto sarà accreditata la sua giu-
stizia e al malvagio la sua malvagità” (Ez 18,20).
Quindi "ad ognuno il suo".
Teologia, questa del profeta Ezechiele, semplice ed
accettabile, ma contraddetta dalla realtà che non si presenta così.
Per questo nella polemica interviene un autore, che è rimasto
sconosciuto, il quale scrive il "Libro di Giobbe" proprio per
contestare questa idea teologica dove si afferma che il buono è
premiato ed il malvagio punito, e presenta un uomo pio e buono
al quale capitano tutte le disgrazie di questo mondo (compresa
quella d'amici che lo vanno a consolare ed offrire i loro "buoni
consigli") per dimostrare che non è vero che i buoni vengono
premiati.
A tirar fuori dal vicolo cieco in cui queste dispute teologiche
avevano condotto, sarà un anonimo autore del II secolo, il quale
per dare coraggio ai martiri della persecuzione religiosa del
terribile Antioco Epifane introduce un nuovo, rivoluzionario
elemento, quello di un ritorno alla vita dei morti per il giudizio
finale. Resurrezione però limitata ai giusti del popolo giudaico:
“Molti di quanti dormono nella polvere si desteranno: gli uni alla
vita eterna, gli altri all'ignominia perpetua" (Dn 12,1-2).
E' la prima volta che nella Bibbia compare il termine
"vita eterna". Alla vita eterna, cioè per sempre, l'autore
contrappone una "ignominia perpetua", cioè una disfatta
definitiva, irreversibile, il fallimento definitivo (l'espressione
"ignominia o sconfitta perpetua" [ebr. herpat 'olam], si trova nel
salmo 78,66, senza alcun senso di sopravvivenza eterna (in Isaia
66,24 si menzionano i "cadaveri" non degli esseri risuscitati che
soffrono).
Fuori della bibbia ebraica, si trova l'idea di resurrezione nel
Secondo Libro dei Maccabei (160 a.C.?). Nel famoso racconto
dell'atroce martirio della madre e dei suoi sette figli, viene
espressa una fede per la resurrezione ad una "vita nuova ed
eterna" (II Mac 7,9) per i martiri, vita però che viene esclusa per i
persecutori: "per te la risurrezione non sarà per la vita" (II Mac
7,14): è la morte eterna, cioè definitiva.
Quel che da queste ipotesi teologiche si ricava è che la fede
nella resurrezione dei morti è una conseguenza della fede nel Dio
Creatore: la resurrezione viene intesa come una nuova creazione
dell'uomo intero.
Queste nuove teorie però non verranno accettate, anzi
verranno condannate come eretiche e rifiutate dalla gerarchia
allora al potere, il gruppo dei Sadducei in quanto non contenuta
nei primi cinque libri della Bibbia. ("In quello stesso giorno
vennero a lui dei sadducei, i quali affermano che non c'è
resurrezione" Mt 22,23), ma se ne approprieranno i "Farisei".
Laici pii impegnati ad osservare fedelmente la Legge in tutti i
suoi dettagli, elaborano per primi in maniera sistematica, la
dottrina della resurrezione dei giusti. Il premio o la punizione per
l'uomo vengono posticipati a dopo la morte per cui il giusto
ritornerà alla vita e il malvagio rimarrà nello "Sheol".
L'idea di resurrezione dei giusti proposta dai Farisei, viene
limitata a Israele. Ne sono esclusi i pagani, i cafoni e quanti
vengono seppelliti fuori della Terra Santa. Poi - riflettendo
ulteriormente - questo gruppo religioso affermerà che risorgono
pure i pagani, ma per essere presentati di fronte al tribunale del
giudizio: chi avrà osservato la Legge di Dio verrà ammesso nel
"giardino dell'eden" (il paradiso)
Il termine paradiso deriva dal medio-iranico pardez, che
significa: giardino, parco. Traduce l'ebraico gan (giardino). Nella
Bibbia dei LXX il termine traduce prevalentemente "giardino").
Nei vangeli si trova una sola volta in Lc 23,42, quando Gesù
rivolgendosi al ladrone l'assicura di entrare con lui nella vita
definitiva. Mai nei vangeli Gesù parla di "paradiso" per indicare
la realtà che spetta all'uomo oltre la morte. Gesù parla sempre e
unicamente di una vita capace di superare la morte e che per
questo si chiama "eterna". Nel resto del NT solo due volte: 2 Cor
12,4 dove Paolo afferma che “fu rapito in paradiso e udì parole
indicibili” e in Ap 2,7: “Al vincitore darò da mangiare
dall’albero della vita, che ta nel paradiso di Dio”.
I malvagi verranno gettati nella "Geenna" (“valle del figlio
di Hinnom”), è un burrone a sud di Gerusalemme, dove c'erano
altari (tofet) nei quale venivano sacrificati i bambini in onore del
dio Molok: “Hanno costruito l’altare di Tofet, nella valle di
Ben-Hinnon, per bruciare nel fuoco i figli e le figlie” (Ger 7,31).
Per stroncare questo culto, la valle venne trasformata in
immondezzaio di Gerusalemme, sperando che gli ebrei, che
avevano l'orrore di tutto ciò che era sporco e quindi impuro,
smettessero di praticare questi sacrifici umani. Col tempo questa
valle divenne simbolo di punizione per i malvagi dopo morte,
come leggiamo nel Talmud:
"Il Santo -che benedetto sia- condanna i malvagi nella Geenna
per 12 mesi. Prima li affligge col prurito, quindi col fuoco
ed infine con la neve. Dopo 12 mesi i loro corpi sono distrutti, le
loro anime sono bruciate e sparpagliate dal vento sotto le piante
dei piedi dei giusti..." (Sanh.29b; Tos.Sanh.13,4-5).
Nell'ebraismo non esisteva e non esiste una idea di una
pena eterna da scontare dopo la morte. Ma, dopo 12 mesi c'è
l'annientamento della persona (anche oggi gli ebrei pregano per
undici mesi per il defunto, dopodiché o è nella vita eterna e non
ha bisogno di preghiere, oppure è morto per sempre e le preghiere
sono inutili).
Gesù poi prenderà l’immaginedella geenna come metafora
per indicare la distruzione totale della persona che non accoglie il
dono di una vita più forte della morte.
Al rifiuto della vita per sempre corrisponde la morte per
sempre. E' questo il significato del monito che corre lungo tutto il
vangelo da parte di Gesù di cambiare atteggiamento altrimenti la
fine è nella Geenna, cioè nell'immondezzaio.
Nei vangeli non solo non si parla mai d'"inferno", ma non
esiste neppure la parola. Nei vangeli si parla di chasma (Baratro)
Lc 16,26; di abyssos (Abisso) Lc 8,31, di Ade (ebr. Sheol) Mt
11,23; 16,18; Lc 10,15; 16,23; (il regno sotto terra, che, secondo la
mitologia greca, alla ripartizione del mondo tra i tre figli di Cronos
(Zeus, Poseidone e Ade), era toccato al terzo figlio, lo spietato
Ade), e di Geenna (Mt 5,22.29.30: 10,28; 18,9; 23,15-33; Mc
9,43.45.47; Lc 12,5).
Tutte immagini che hanno ben poco o nulla da vedere con
quella che intendiamo per inferno, cioè un luogo di supplizi eterni
popolato da diavoli tremendi.
Agli inizi dell'era cristiana, sotto l'influsso di idee ellenistiche,
l'immagine del mondo aveva cominciato a modificarsi: l'immagine
dell'universo a tre piani (cielo, terra, mondo sotterraneo) venne
sostituita dalla terra circondata da sfere planetarie: la regione
celeste, al di sopra della luna era riservata agli dei e quella al di
sotto della luna agli spiriti degli uomini e alle potenze demoniache.
(Il "descensus ad inferna" compare per la prima volta in una
professione di fede verso la metà del secolo V, nella cosiddetta
quarta formula di Sirmio del 359, opera del siro Marco di Aretusa).
Gesù prenderà pure l'idea farisaica della resurrezione (ma
cambiandone sostanzialmente il contenuto) per parlare agli ebrei,
che potevano capire questa categoria teologica (cfr. Mc. 8,31;
9,31;10,34.). Ai pagani, Gesù non parlerà mai di risurrezione, ma
di una vita capace di superare la morte fisica: "...chi perde la
propria vita per causa mia e del Vangelo la conserverà..." (Mc
8,35),
La vita eterna che Gesù offre, si chiama così non per la sua
durata indefinita, ma per la qualita': la sua durata senza fine e'
conseguenza della qualita', e Gesù ne parla al presente. Non parla
di una "vita" del futuro, come di un premio da conseguire dopo la
morte se ci siamo comportati bene nella vita, ma di una qualità di
vita che è a disposizione subito per quanti accettano lui ed il suo
messaggio e con lui e come lui collaborano alla trasformazione di
questo mondo. Gesù lo dice: "Chi mangia la mia carne e beve il
mio sangue HA la vita eterna. (Gv 6,54).
N.B: (sia chiaro che non è un invito a "fare la comunione" ma,
nutrendosi del pane che da Gesù, avere i suoi stessi sentimenti nei
confronti degli altri... "Fate questo in memoria di me..." (1 Cor
11,24), non significa partecipare ad un rito commemorativo, ma
mettere nella nostra vita gli stessi sentimenti che spinsero Gesù a
donarsi totalmente per gli altri...)
Una vita di una qualità tale che quando si incontrerà colla morte
la scavalcherà: "se uno osserva la mia parola non morira' mai (Gv
8,51). Gesù assicura che chi vive come lui è vissuto, cioè facendo
sempre del bene, non farà l'esperienza del morire.
Secondo Gesù è la persona intera che continua a vivere, non un
"qualcosa" di questa. La permanenza della VITA attraverso la
MORTE è quel che si chiama risurrezione.
L’anima non è qualcosa che l’uomo ha, bensì qualcosa che egli è.
Gesù nei vangeli non parla mai di anima, concetto
sconosciuto nell'ebraismo. Questo dell'anima è una idea che il
cristianesimo ha preso poi a prestito dalla filosofia greca, ma che è
assente nell'ebraismo. Il termine greco psyké, non significa altro
che la vita della persona. Non esiste, secondo il pensiero ebraico,
una realtà nell'uomo contrapposta al corpo. (Del resto nel "Credo”
abbiamo sempre professato di credere nella "resurrezione dei
morti" e non nell'immortalità dell'anima...) Quindi anima nel senso
di persona, come comunemente si esprime parlando: "Una
parrocchia di duemila "anime" "Un'anima in pena..."
La fede nella continuità di tutta la persona oltrepassata la
soglia della morte, è tanto forte e radicata nelle prime comunità
cristiane che verrà sempre ostacolata qualunque ipotesi di
sopravvivenza dell'anima.
I primi cristiani contrappongono alla fede ellenistica dell'
immortalità dell'anima, la fede cristiana della risurrezione della
carne.
La teoria platonico-ellenistica dell'immortalità dell'anima è
considerata dai Padri della Chiesa una dottrina empia e sacrilega
che doveva più di ogni altra essere combattuta ed abolita.
La fede nella risurrezione della carne era così tanto specifica
che divenne la parola d'ordine del Cristianesimo. Chi credeva
invece all'immortalità dell'anima mostrava di essere estraneo al
cristianesimo.
Così si legge in Giustino: "Se doveste incontrarvi con coloro
che si fanno chiamare cristiani... e che affermano che non vi è
alcuna risurrezione dei morti, ma che le loro anime saranno
accolte in cielo già al momento della morte, non considerateli
cristiani" (Dial. 80,4). "L'anima non può dirsi immortale"
aggiunge ancora Giustino (ib. 5,1). Sempre riguardo il concetto di
resurrezione/immortalità dell'anima è illuminante il pensiero di
Teofilo secondo il quale l'uomo per sua natura non è né mortale
né immortale, ma è creato con la possibilità di dirigersi nei due
sensi (Ad Autol. II, 27).
Pertanto nel messaggio di Gesù per vita che continua dopo la
morte non si deve intendere la sopravvivenza di un'anima, ma la
persona stessa che continua la sua esistenza in una diversa
dimensione in una continua crescita e trasformazione di se stessa
verso la piena realizzazione, come recita il prefazio per la messa
dei defunti: "La vita non viene tolta, ma trasformata..."
Credo che questo faccia parte dell'esperienza della vita, almeno
ad un certo stadio di essa. Arriva un punto della vita nel quale
l'armonica crescita tra il corpo, la parte biologica e quella spirituale
o morale subisce una metamorfosi. Mentre finora erano cresciute in
maniera armonica graduale, allo sviluppo del corpo si
accompagnava anche lo sviluppo dell'intelletto, della morale, della
spiritualità, di quello che rende una persona tale, arriva un punto
della vita in cui la parte biologica, raggiunto il suo apice inizia un
graduale declino, e questo coincide proprio mentre la parte che
chiamiamo "spirituale" sembra essere al massimo della sua
potenza. Mentre quest'ultima continuerà a crescere, l'altra
proseguirà il suo inevitabile declino. Mentre la maturità di pensiero
si consoliderà e nella misura che darà frutti crescerà, il corpo inizia
il suo lento cedimento.
San Paolo esprime stupendamente questo concetto:
"Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo
esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in
giorno." (2 Cor 4,16).
All'inevitabile disfacimento della parte biologica,
corrisponde la pienezza della maturità, alla morte delle cellule la
vita indistruttibile... Quindi morte non più come distruzione ma
trasformazione o realizzazione della persona accolta a far parte
della pienezza di quel Dio che ha per essi preparato "quelle cose
che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di
uomo..." (1 Cor 2,9)

http://www.studibiblici.it/appunti/Vita%20eterna.pdf

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